lunedì 23 dicembre 2013

Il Cristo morto di Hans Holbein (1521)

Le tre fasi del restauro della tela.


Nella chiesa parrocchiale di Azzate, a sinistra dell’altare maggiore, sotto l’organo, è presente un dipinto piuttosto particolare: si tratta del Cristo Morto, che riproduce in modo impressionante la tela di Hans Holbein esposta al Kunstmuseum di  Basilea. Questo è stato l’argomento dell’ultima serata del gruppo storico Aciate, che si è riunito mercoledì scorso, prima della pausa estiva (la prossima riunione del gruppo è fissata per il 5 aprile, sempre alla sede delle A.C.L.I.).
La riflessione di Giancarlo Vettore, anima del gruppo, si è concentrata sulla presenza di quest’opera, che è legata, in qualche modo, al suo originale conservato, appunto, a Basilea e risalente al pittore fiammingo Hans Holbein, che la dipinse nel 1521. Ma le domande che si sono poste ed a cui anche altri hanno tentato di dare una risposta sono diverse: a che epoca risale il dipinto di Azzate? Che rapporto ha con l’originale? Come mai è presente proprio ad Azzate una copia del capolavoro? Domande appassionanti a cui si è tentato di dare delle risposte.
A che epoca risale il dipinto. Per questo, abbiamo una testimonianza che ha dell’incredibile. Negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, il dipinto, che, secondo le testimonianze, era stato staccato dalla parete e lasciato arrotolato dietro gli stalli del coro, viene recuperato grazie all’interessamento del parroco del tempo, don Angelo Cremona, che chiede un giudizio ad un esperto, il restauratore prof. Mario Rossi, che, avendo a disposizione la tela, oltre a restaurarla, affermò che si trattava di uno studio dall’originale. E l’incredibile della vicenda del restauro consiste nel fatto che l’opera venne portata al restauratore dal pittore azzatese Giuseppe Triacca, che, in bicicletta, portando la tela arrotolata sotto il braccio sarebbe andato fino a Varese, a casa del Rossi, vicino alla fabbrica dell’Aermacchi. Non solo, ma il parroco, dicono i più informati, avendo saputo che la fabbrica di aeroplani era stata bombardata, si sarebbe anche disperato, temendo per la sorte del dipinto, che, invece, non subì danni.
Che rapporto ha con l’originale? Che i due dipinti siano particolarmente simili non c’è dubbio, anche ad un occhio inesperto e potrebbe essere che, in considerazione del fatto che il soggetto era particolarmente ben riuscito, si sia pensato di replicarlo.
E qui rispondiamo alla terza domanda. Come mai la presenza di una copia del capolavoro proprio ad Azzate? È ancora Vettore che cerca di dare una risposta. In una pala di Callisto Piazza presente nella stessa chiesa di Azzate, viene raffigurato il matrimonio mistico di  S. Caterina d’Alessandria, S. Gerolamo ed il committente dell’opera, il senatore Egidio Bossi. Costui, che nel 1538 acquista il feudo della Val Bodia, è autore di un’opera che viene pubblicata dal figlio, tale Francesco Bossi, vescovo di Novara,  proprio a Basilea. Quindi è probabile che Francesco Bossi sia andato personalmente a Basilea e sia stato suggestionato da questa raffigurazione del Cristo morto, fino al punto di ordinare una copia del dipinto.
Queste risposte sono solo ipotesi, ma hanno una forte probabilità di non discostarsi dal vero. Intanto, per gli appassionati di Holbein, e per coloro che vogliono visionare un’opera davvero inquietante, una visita alla chiesa di Azzate è da mettere in calendario.
 Giancarlo Vettore ha chiesto alla direttrice del museo di Basilea di avere una fotoriproduzione dell’originale, e, presto, le due opere potranno essere paragonate da vicino.

                                                                                                                          
La suggestività del Cristo morto di Holbein è così forte che lo stesso Fedor Dostoevskij ne propone un’immagine nell’Idiota, l’opera da lui pubblicata nel 1886 e costruita attorno alla figura del principe Myskin. L’autore, che aveva sentito parlare del Cristo morto, si sarebbe recato personalmente a Basilea per visionare l’opera e ne ha riprodotto l’immagine in una pagina del suo romanzo. Non solo: pare che lo stesso Lenin,  decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recasse appositamente a Basilea per osservare il dipinto. Una riflessione sulla figura inquietante del Cristo l‘abbiamo trovata anche nelle pagine dei primi numeri del Gazzatino della Valbossa, ad opera di Luciano Tibiletti, allora consigliere della Pro Loco di Azzate.
In questo scritto, il Tibiletti non si pone a discutere sull’autenticità o meno dell’opera, ma si limita ad una contemplazione del dipinto, sull’estrema umanità che traspare dalla figura del Cristo, sul suo realismo agghiacciante. È un Cristo stecchito nella rigidità della morte, e, nella gamma delle passioni, è certo quella che lascia più sgomenti.
 “La linea perfettamente orizzontale suggerisce un diagramma della vita piatto. La necrosi della mano e dei piedi dimostra iniziato il processo di putrefazione.”
È, secondo Tibiletti, una raffigurazione dell’uomo di fronte al mistero della morte: “il naso affilato, la bocca aperta quasi nell’ultimo grido lanciato dalla croce (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). L’occhio rimasto sbarrato richiama la fissità della morte” e la beffa finale che nega ogni speranza. Ecco il richiamo di Dostoevskij che ritiene come un’opera come questa può far perdere la fede. “Davanti a questo cadavere è morta la speranza. Questa è l’ora delle tenebre, l’ora cupa in cui i discepoli si tengono nascosti sgomenti, in preda allo sconforto e, forse, alla disperazione.”
                                          Ugo Marelli

UN QUADRO PERICOLOSO
Si racconta che Dostoevskij contemplando a Basilea il "Cristo nel sepolcro" di Hans Holbein il giovane cadesse in uno stato di deliquio e di disperazione. Quell'occhio spalancato e vuoto, i lunghi capelli disordinati e la barba aguzza e incolta, la bocca aperta congelata nella smorfia dell'agonia e il corpo macilento e ossuto, la mano violacea e i piedi dalle nere unghie, non lasciavano nello spettatore margine di dubbio alcuno. Cristo, il più bello tra gli uomini, era veramente morto e mai sarebbe risorto! "Guardando quel quadro la natura appare sotto l'aspetto di una belva immane (...) che abbia assurdamente afferrato, maciullato e inghiottito, sorda e insensibile, un Essere sublime e inestimabile: un Essere che da solo valeva l'intera natura con tutte le sue leggi, tutta la terra, la quale forse fu creata unicamente perché quell'Essere vi facesse la sua apparizione!". La descrizione che, nell'Idiota, Dostoevskij fa del quadro di Holbein si contrappone indirettamente a quella che un altro grande russo, il filosofo e teologo Pavel Florenskij, quasi cinquant'anni dopo, traccerà di una sacra icona della tradizione ortodossa, la "Trinità" di Andreij Rublev (1415 ca). Come la straordinaria purezza di quelle composte immagini di angeli è frutto, secondo il martire della chiesa russa (Florenskij fu fucilato da Stalin nel 1937), di una visione di Dio, e deve quindi essere annoverata a pieno diritto tra le dimostrazioni della sua esistenza, così il corpo martoriato e abbandonato del Cristo di Holbein è una prova altrettanto inconfutabile della sua definitiva morte. Come Rublev, per potersi sollevare a tanta divina bellezza, doveva "aver visto", anche il pio Holbein, per raggiungere tanta realistica crudezza, doveva "aver visto". Ma aveva visto la più orribile delle visioni: Dio stesso che è per sempre morto! Per questo dinanzi ad essa il devoto Dostoevskij ebbe un accesso epilettico. "Quel quadro! - esclamò il principe, colpito da un pensiero improvviso: - quel quadro! Ma quel quadro a più di uno potrebbe far perdere la fede!" (L'idiota).
Attraversarono quelle stesse stanze per dove il principe era già passato; Rogòzin andava avanti e il principe lo seguiva. Entrarono in un salone dove alle pareti erano appesi dei quadri: tutti ritratti di ecclesiastici o paesaggi in cui non si riusciva a distinguere chiaramente nulla. Sopra la porta che metteva in un’altra stanza era appeso un quadro piuttosto strano per la sua forma: era lungo quasi due metri e alto meno di una trentina di centimetri. Il quadro rappresentava il Salvatore subito dopo essere stato deposto dalla croce. Il principe gli gettò un’occhiata di sfuggita, come se gli ricordasse qualcosa, ma non si fermò e si avviò verso la porta. Si sentiva molto oppresso e voleva uscire al più presto da quella casa. Ma Rogòzin si arrestò improvvisamente davanti al quadro.
“Tutti i quadri che vedi qui,” prese a dire, “sono stati comprati all’asta per uno o due rubli; a lui piaceva comprarne. Un intenditore è stato qui a vederli: ha detto che sono tutte croste, eccetto questo quadro qui sulla porta, che è stato anch’esso acquistato per due rubli, ma che non è una crosta. C’era già stato uno che aveva offerto al babbo di acquistarlo per trecentocinquanta rubli [...]. Ma io ho preferito tenermelo.”
“Ma questa.... questa è una copia di un quadro di Hans Holbein,” disse il principe, che intanto aveva osservato meglio il quadro, “e, sebbene io non sia un grande intenditore, mi pare che sia un’ottima copia. Questo quadro io l’ho già visto all’estero e non ho mai potuto dimenticarlo. Ma che ti prende?...” [...]
“Dimmi un pò, Lev Nikolàevic, era già un pezzo che volevo chiedertelo: tu credi in Dio o no?” riprese a dire improvvisamente Rogòzin, dopo aver fatto qualche passo.  
“Che strano modo di far domande il tuo... e di guardarmi!” esclamò involontariamente il principe.  
“A me piace contemplare questo quadro,” mormorò Rogòzin dopo una pausa di silenzio, come se di nuovo si fosse dimenticato della domanda che aveva fatto.
“Questo quadro!...” gridò il principe, come colpito da un’idea improvvisa, “questo quadro!...” ripeté.
“Ma questo quadro può far perdere la fede!”
“Infatti la si può perdere,” confermò inaspettatamente e all’improvviso Rogòzin.

(F. Dostoevskij – L’idiota)


La pittura del '500 del '600

D'altronde, Holbein, che aveva adottato la cittadinanza di Basilea, rappresenta ancora oggi una figura chiave del Kunstmuseum: uno dei quadri del geniale artista viene considerato un po' come “il dipinto” della città sul Reno.

Si tratta del “Cristo morto”, del 1521, una salma allungata su un telo bianco, davanti ad uno sfondo verde scuro. Una morte palpabile nella sua crudezza.

Un Cristo che Fiodor Dostojevski volle vedere da vicino: al museo salì perfino su una scala per ammirare meglio il dipinto, di cui parlerà nell’”Idiota”. Anche Lenin, decenni più tardi, durante il suo soggiorno a Zurigo, si recò appositamente a Basilea per osservare il quadro.
3. Cristo morto. Modello straordinario e straordinariamente sconvolgente di teoria del corpo come oggetto medico-anatomico - teoria non solo nel senso originario di visione e sguardo pittorico - è l’immagine del Cristo deposto dalla croce, dipinta nel 1521 da Hans Holbein il Giovane. Il Cristo morto è un corpo rappresentato e indagato nella miseria della sofferenza e della morte, nella immobilità più perfetta. È un corpo insieme troppo umano, fragilissimo, ma anche, nella spietatezza del tratto pittorico, inumano, in-umanizzato. (Il corpo dipinto da Holbein è, d’altra parte, lo stesso corpo, lo stesso cadavere che negli stessi anni (1543) Andrea Vesalio dissezionava e trascriveva nel suo trattato sulla humanis corporis fabrica.)
Corpo, quello del Cristo di Holbein, che appare come pietrificato: fascio di muscoli e di ossa e di tendini che una luce fredda e radente illumina, rilevando ogni sporgenza, ogni spigolo, ogni incavo, ogni ferita. Steso su di un panno bianco semplicissimo, un pezzo di tela senza ombra di drappeggio (solo poche pieghe corte e secche), posato su di una pietra orizzontale e inscritto in uno spazio lunghissimo e basso, privo di punti di fuga, implacabile ed essenziale, il Cristo di Holbein non risorgerà né il terzo giorno né mai. La vita sembra non essergli mai appartenuta. La forma perfetta del dipinto, come visione e teoria anatomica, è tutt’uno con la commozione fredda che sembra spirarne; ma l’imperturbabilità dell’esattezza descrittiva non può restituire il corpo di Cristo se non nella forma della degradazione e del disfacimento.
Immagine e simulacro definitivo dell’impossibilità di una comprensione analitica-astraente del corpo vivente e significante, la visione holbeiniana sigilla la (necessaria) inespressività programmatica e metodologica di un sapere che costruisce se stesso a partire dal frammento e solo a partire dal frammento: a partire dal corpo in pezzi. Il coltello e lo stilo del medico-naturalista greco, il coltello e lo stilo del medico del Cinquecento, sono, nel Cristo morto, il pennello di Holbein.

Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva  una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».

Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.
Andrea Velasio, Humanis corporis fabrica.


Mosca, Galleria statale Tretjakov, Trinità di Andreij Rublev.

Il prevosto di Azzate don Luigi Cantù introduce la conferenza: "Confronto critico
del Cristo morto di Basilea e la copia di Azzate".
Il prof. Croci relatore della conferenza.
Chiesa Parrocchiale di Azzate. Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della
riproduzione fotografica del'originale di Basilea (in basso).
Giancarlo Vettore introduce la conferenza.
Copia a carboncino del pittore azzatese Giuseppe Triacca.

Chiesa Parrocchiale di Azzate.
Esposizione della copia seicentesca (in alto) e della
riproduzione fotografica dell'originale di Basilea (in basso).




venerdì 20 dicembre 2013

Ritratto del senatore Egidio Bossi

Particolare con il ritratto del senatore Egidio Bossi.
“Eccellenza, presto! Mastro Callisto è arrivato e attende nella sala grande”.
Callisto Piazza da Lodi, come verrà chiamato in seguito il celebre pittore, aveva già preso posto davanti alla sua tela e stava preparando i colori poiché egli doveva dare ancora dei colpi di pennello al volto del senatore Egidio Bossi.
Il nobiluomo discendeva in linea diretta dal grande Rabalio Bossi che passerà alla storia per essere stato intorno al 1290 signore di Azzate e del suo castello. Di padre in figlio i suoi discendenti si erano tramandati quella signoria, tanto da essere detti i Bossi di Azzate per distinguerli dagli omonimi di Milano.
Sia questa che quella casata era sempre stata fedele ai Visconti tanto che i suoi discendenti si meritarono il diritto di poter essere eletti al Capitolo alla Chiesa Metropolitana di Milano. E infatti nella cosiddetta Matricola di Ottone Visconti del 1377, dove vengono elencate 189 famiglie, compaiono anche i Bossii de Aciate e i Bossii domus Jacobi, cioè i Bossi di Azzate ed i Bossi della casa di Giacomo, ossia i Bossi di Milano.
Il senatore Egidio Bossi aveva aumentato il suo prestigio e la sua potenza acquistando nel 1538 da Agostino D’Adda il cosiddetto Feudo della Val Bodia che gli consentiva di estendere la sua signoria, oltre che ad Azzate, a Gazzada, a Buguggiate, a Brunello, a Crosio, a Daverio, a Galliate e a parte di Bodio.
La sua fama a Milano si era ormai molto estesa per il fatto di sedere nel Senato Eccellentissimo ma soprattutto per aver messo mano alla stesura delle Nuove Costituzioni di Milano, una specie di codice che raccoglieva tutte le leggi del Ducato di Milano.
A distanza di quattro anni dal suo insediamento come feudatario, nel 1542, sentiva il bisogno di lasciare ad Azzate una traccia tangibile della sua persona e perciò, in ossequio anche al grande rispetto che portava verso la Chiesa di Azzate, commissionò al pittore Callisto Piazza una pala d’altare in cui fossero raffigurati la Madonna in trono col Bambino nell’atto di celebrare le nozze mistiche con Santa Caterina d’Alessandria, San Gerolamo e lui stesso, genuflesso, in atto di preghiera.
Non pensava il committente che il suo ritratto avesse richiesto uno studio così particolareggiato e un tempo così lungo di posa e perciò, anche quel mattino, rispose con molta sopportazione alla sollecitudine che gli veniva proferita dalla sua governante e lo invitava a raggiungere il pittore nella sala grande. Meno male che poteva rimanere nel suo consueto abbigliamento e soltanto una o due volte gli fu imposto di indossare quella grossa zimarra nera che era un po’ il simbolo della sua alta carica in Senato.
Si sarà chiesto il nostro Egidio se il valente pittore lo avrebbe raffigurato in modo così preciso e somigliante che gli azzatesi lo avrebbero riconosciuto a prima vista? In cuor suo sperava di sì, anche perché sarebbe stato l’unico suo ritratto nel piccolo paese di Azzate da collocarsi addirittura sull’altare maggiore della Chiesa Parrocchiale di S. Maria.
Il senatore sapeva che altri ricordi di lui sarebbero sopravvissuti dopo la sua morte come, per esempio, lo stemma di famiglia in cui aveva fatto incidere il suo nome in latino Aegidius.
Non sapeva che l’incendio avrebbe distrutto lo stemma che aveva voluto alla sommità della tela e che causò anche la perdita della cornice dorata in cui era racchiusa.

Chiesa Parrocchiale di Azzate.
Pala di Callisto Piazza da Lodi - 1542.

BOSSI EGIDIO


 Nacque a Milano nel 1488 da Francesco e Anastasia Carnaga. Dedicatosi alle discipline giuridiche per le quali aveva dimostrato fin dai primi studi grande attitudine, si addottorò brillantemente in giurisprudenza. Entrato a far parte nel 1518 del collegio dei giureconsulti milanesi, in breve tempo vi acquistò autorità, soprattutto nel campo del diritto penale, nel quale fu considerato tra i giuristi più esperti del suo tempo.
Il Bossi, cui la vasta erudizione e le capacità personali valsero unanimi riconoscimenti, si mosse nell'ambito della nuova metodologia trattatistica in cui sfocia agli inizi del sec. XVI la scuola del commento. Ottenuto dapprima il grado di giureconsulto massimo, resse poi per sei anni quello di regio fiscale; eletto quindi decurione e podestà di Novara, la massima onorificenza gli venne dallo stesso imperatore Carlo V che lo chiamò tra i senatori milanesi. Coprì questo ufficio per diciassette anni, fino alla morte, risolvendo spesso dibattute controversie: destò tra le altre scalpore la sentenza con cui nel 1537 rendeva possibile alla plebe di Vigevano l'accesso al consiglio comunale, contro l'opposizione dei patrizi locali, citati davanti al Senato milanese dai rappresentanti popolari.
Formatasi intanto, sotto la presidenza di G. F. Sacco, la commissione incaricata di redigere le nuove costituzioni dello Stato di Milano, nate su disegno di Francesco Sforza, il Bossi ne entrò a far parte e, assieme con P. Crasso e F. Lampugnani, fu uno dei principali compilatori della raccolta, raggruppando organicamente e modificando in base alle nuove esigenze dei tempi editti e decreti dei principi milanesi. Le nuove costituzioni, dopo l'approvazione da parte del Senato e di Carlo V, furono promulgate il 5 ottobre 1541 e costituirono il diritto provinciale di fronte agli statuti comunali.
Il Bossi morì nel 1546, come attesta la lapide sepolcrale fatta porre dalla moglie Angela de' Pieni nella chiesa milanese di S. Maria Coronata a porta Comasca; risultano quindi inesatte le notizie riportate dal Riccioli nella Chronol. Reform., c. 189, e dal Quenstedt nel De Patriis Illust. vir., c. 290, che collocano attorno al 1570 il periodo della sua massima attività (cfr. Mazzuchelli, p. 1849).
Opera fondamentale del Bossi, punto di riferimento obbligato per ogni approccio alla dottrina giuridica milanese, sono i Tractatus varii editi a Venezia nel 1562, a Basilea nel 1574 e a Lione nel 1594. Sono più di cento "titoli" che, illustrando con l'ausilio di pareri illustri e di indubbie decisioni giudiziali le maggiori cause di controversia in tema di diritto penale, compendiano, in maniera solo apparentemente slegata nel suo insieme, la migliore dottrina criminale del tempo. Giudicando comunque ancora poco omogeneo il risultato del suo lavoro, il ossi. ne aveva rinviato la pubblicazione, ma la morte improvvisa gli aveva impedito di apportarvi quegli ultimi ritocchi che avrebbe desiderato; i Tractatus varii uscirono quindi postumi, a cura del figlio Francesco.
Svolgendo le questioni giuridiche, oggetto dei Tractatus, il Bossi a volte aderisce all'opinione "comune", in altre occasioni preferisce invece presentare soluzioni individuali: se nel titolo De monetis egli s'inserisce in quel largo filone dottrinale che risolve il problema del pagamento pecuniario nelle prestazioni annue facendo riferimento al valore monetario del "tempus solutionis", perviene invece a posizioni più personali nei titoli dedicati alla tortura. Cinque dei suoi tractatus si riferiscono direttamente a tale argomento: De iudiciis et considerationibus ante torturamDe torturaDe confessis per torturam ac effectu torturaeDe tortura testiumDe tortura accusatoris. Nel De tortura accusatoris affronta un tema abitualmente sorvolato dagli altri giuristi, circa la consuetudine di sottoporre a tortura l'accusatore; egli al contrario, per ragioni di completezza ("ut nihil pro viribus meis omittatur"), gli dedica un titolo apposito, breve e conciso, in cui mette in evidenza i punti giuridicamente più interessanti della questione. Nel De iudiciis et considerationibus ante torturam tratta della applicazione della tortura a consiglieri, priori, podestà e funzionari politici in genere, considerati immuni dalla dottrina comune; il Bossi, in caso di consuetudine contraria, propende per il suo rispetto, ma vi apporta una limitazione, riconoscendo legittima la tortura dei consiglieri soltanto fuori del territorio in cui sono stati investiti della loro dignità.

Bibl.: C. Cartari, Advocatorum sacri consistorii syllabum, Romae 1656, p. 154; F. Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi, Milano 1670, p. 166; M. Lipenii Bibliotheca realis iuridica, Francofurti 1679, ad Indices; G.M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, p. 1849; G. Verri, De ortu et progressu iuris mediolanensis, Milano 1747, pp. 122 s.; F. Fossati, La plebe vigevanese alla conquista dei poteri pubblici nel 1536, in Arch. stor. lomb., s. 4, IV (1905), pp. 333, 336, 338; C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo, Milano 1937, p. 36; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Varese 1953, I, p. 160; Enc. Ital., VII, p. 557.

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)





BOSSI EGIDIO
«Bossi Egidio, insigne Giureconsulto a quei tempi e dappoi Senatore nel Senato di Milano, si potrà anch`esso, scrive il Nessi (l.c. pag. 174), attribuire a Locarno per lunga consuetudine avutavi: e da lui o dalla sua famiglia prese nome la contrada dei Bossi. Nel 1566 fu stampata a Venezia per cura di Francesco suo figlio una postuma di lui opera, che levò molto grido in fatto di criminale giurisprudenza, intitolata Aegidii Bossii iurisconsulti clarissimi, caesareique Senatoris tractatus varii. Nacque in Locarno Marcantonio altro suo figlio, che fu poi ambasciatore di Filippo II presso gli Svizzeri, ed indi maestro delle entrate straordinarie nel ducato di Milano. Un altro Egidio Bossi fu pretore della Val Sassina nel 1586 e 1587». Fin qui il Nessi, alle parole del quale null`altro ho da aggiungere. (Estratto da Magazzino Storico Verbanese).

BOSSI BERNARDINO
Figlio di Francesco e Anastasia Carnago jugali, fu fatto medico del nobile collegio il 18 giugno 1511. Fu filosofo e medico assai commendato, non che per la grande sua liberalità

Villa Bossi-Alemagna

Tutti conoscono il cognome Alemagna non fosse altro per il noto panettone; altri lo associano al Viale Alemagna di Milano, via che attraversa il parco Sempione e dopo essere stata intitolata all’Italia, fino agli anni Venti, e per breve tempo all’Arte, fu in seguito giustamente intitolata al conte architetto Emilio Alemagna (Milano 1833 – Barasso 1910) che propugnò il ripristino di aree verdi in una città che già allora ne scarseggiava.
La nobile famiglia Alemagna è oriunda di Varese, feudataria di Busnago e Roncello.
Secondo alcuni genealogisti, in analogia di quanto ipotizzato sulla omonima casata di Napoli, il cognome sarebbe derivato da Alemagna per ricordarne la terra di provenienza.
Maria Teresa imperatrice d’Austria con diploma 21 luglio 1756 investiva il conte Giuseppe del feudo di Busnago (Milano) per appoggiarvi il titolo, con trasmissibilità per maschi primogeniti.
Altri personaggi noti di questa famiglia furono: Alberto, favorevole alle idee rivoluzionarie e chiamato da Bonaparte quale membro della Congregazione di Stato; ebbe il proprio cospicuo patrimonio sequestrato dagli austriaci ed il conte Emilio (1834-1910) famoso architetto, autore di Villa Ponti-Borghi, del palazzetto Castelbarco-Albani, del parco annesso al castello sforzesco (prima adibito a piazza d’Armi) in Milano e di altre mirabili realizzazioni quali l’unione dei Boschetti con i Giardini Pubblici, la Stazione Centrale (come direttore dei lavori). Fu membro della giuria per il concorso internazionale per la nuova facciata del Duomo (1886) e la sua opera venne sempre più richiesta dalle famiglie più in vista di Milano. Attualmente la famiglia risulta estinta per mancata discendenza maschile, ma continua attraverso gli Aletti-Alemagna, con il conte Carlo Alberto che risiede nella sontuosa villa di Barasso e porta lo stesso nome del personaggio che andremo ora a descrivere.
La letteratura è ricca di opere su questa nobile famiglia per cui rimandiamo ad esse per saperne di più e accontentiamoci di esaminare il loro stemma poiché lo ritroveremo affrescato sul camino della  villa di Azzate che comunemente viene denominata Alemagna-Ferrario.
Arma: Partito: a destra d’oro, all’aquila bicipite coronata spiegata di nero uscente dalla partizione; a sinistra d’oro a tre bande di rosso.



                                              
Gli Alemagna, come altre nobili famiglie, non erano radicate sul territorio azzatese ma vi si impiantarono per ragioni di matrimonio.
E’ quello che capitò a Carlo Alberto Alemagna che il 27 settembre 1693 prese in moglie la nobile Isabella Bossi figlia del fu fisico collegiato Ippolito.
L’atto di matrimonio registrato dal prete Gio. Battista Bossi curato di Azzate dice testualmente:
"Adì 27 settembre 1693 il sig. Carlo Alberto Alemagna fq. Pietro Antonio del luogo e borgo di Varese ha contratto il matrimonio per verba de presenti con la sig.ra Isabella Bossa fq. fisico collegiato Hippolito Bosso alla presenza ed interrogazione di me prete Gio. Battista Bosso curato di Azzate, essendo presenti per testimoni la sig.ra Giuliana ... vedova q. Pietro Gerolamo e Margherita Albina q. Andrea. Le pubblicazioni sono state dispensate dal rev. Aluisio ... vicario generale dell'arcivescovo di Milano". (A.P.A.).




Il matrimonio ce lo immaginiamo celebrato con tutte le solite fastosità che erano abituali per personaggi del loro rango. Lui era un notaio del Collegio di Milano mentre lei era la figlia di un fisico (medico) collegiato di Milano, proprietario di cospicui beni immobili in Azzate, parte dei quali finirono nella disponibilità di Carlo Alberto come dote della moglie.
Ce lo conferma questa sua dichiarazione: “AL NOME DI DIO. AMEN. Io dottor Carlo Alberto Alemagna del q. Signor Pietro Antonio d’anni 46 del Borgo di Varese capo di Pieve notifico possedere nella terra di Azzate pieve di Varese gli infrascritti beni in pezzi n. 25 confinanti con i Signori Paolo Bossi, Francesco Bossi di Montonate, Veronica Bossi-Velati, … Bossi, Dottor Cesare e fratelli Bossi, reverendo Curato Ambrogio Orlandi, Stefano Bossi, Francesco Piccinelli, Dottor Giovanni Bossi, reverendo prete Giovanni Daverio coadiutore d’Azzate, Chiesa delle Case Vecchie d’Azzate, Chiesa Parrocchiale d’Azzate, Oratorio di S. Lorenzo d’Azzate, Giacomo Ballerio, Reverendi Padri Conventuali di S. … di Varese, beni della Causa Pia Frasconi di Biumo Inferiore, Roggia, strade e accessi:

- Prati asciutti con alberi                                                          p. 32.14
- Aratori asciutti con qualche morone                                       p. 51.  3
- Vigne prative                                                                        p. 10.-
- Vitate e aratorie con ripe prative e di pascolo                        p. 51.12
- Boschi di castagne                                                                p.   7.17
- Boschi da taglio per legna di fascine con roveri e pioppe       p. 18.17
- Ortagli o giardini e siti di case                                               p.   8.  5
                                                                                              ----------
                                                                                              p. 275.12

Di più notifico possedere nella terra di Azzate per affitti di case due, l’uno dalla Signora Maria Daverio-Bossi, l’altro da Gerolamo e Giuseppe fratelli Macchi per rispettiva porzione di casa da loro goduta lire 50 più un livello che mi pagano annualmente i Signori reverendo Canonico Emilio e fratelli Grandi sopra beni enunciati nell’istrumento di ricognizione rogato dal fu notaio Pietro Maria Bernasconi il 10 maggio 1696 di lire 9.
Dichiaro e notifico inoltre che per i suddetti beni sono stato censito in soldi 12911 ¼ d’estimo per i quali ho pagato di carico alla terra di Azzate nell’anno 1717 lire 237.14.5 e nell’anno 1718 lire 250.18 compreso il perticato rurale.
Sopra quali beni si paga la solita decima del vino e grano soliti decimarsi in campagna e in fede questo dì 15 luglio … Carlo Alberto Alemagna notaio collegiato di Milano notifico come sopra.

E’ dunque da ritenere che il giureconsulto Carlo Alberto Alemagna abbia lasciato la casa avita di Varese e si sia trasferito ad Azzate nella villa che fu degli avi di sua moglie Isabella.
Secondo un'iscrizione posta sulla casa, la costruzione risalirebbe al 1567 e sarebbe pertanto una delle prime case di Azzate ad affacciarsi sul ciglio che digrada verso il lago di Varese e percorso dall'attuale Via Volta. A differenza delle case appartenenti al nucleo della Ca' Mera, questa villa e le attigue, presentano orientamento ribaltato, con prospetto principale a settentrione e cortile con giardino a meridione.
Come tutte le case di Azzate, anche questa fu profondamente trasformata nella seconda metà del XVII secolo, epoca alla quale si può ascrivere il bel portale d'accesso sul lato destro della facciata; pure il XVIII secolo lasciò la sua impronta negli splendidi soffitti a passasotto e nel completamento stilistico delle aperture, con cornici elaborate del tardo barocco lombardo. (SANTINO LANGE', Ville delle province di Como, Sondrio e Varese).
Un intervento diretto del dottor Carlo Alberto potrebbe essere quello di aver fatto affrescare lo stemma Bossi e Alemagna sul camino del salone principale.
Nella sua casa di Azzate, probabilmente scelta per l’indubbio prestigio del proprietario, senza trascurare l’effetto scenografico, il 13 marzo 1712 avviene il sopraluogo per l'apprensione del feudo di Azzate e Dobbiate che segna un altro punto a sfavore della nobile famiglia Bossi che perde la giurisdizione feudale acquistata nel lontano 1538 dal senatore Egidio Bossi e ritorna ora nella disponibilità della Camera di Milano.
Nel 1722 si avviano ad Azzate tutte quelle operazioni considerate preparatorie al cosiddetto Catasto di Maria Teresa che gli esperti conoscono come “risposte ai 45 quesiti” e che puntano a conoscere il territorio dal punto di vista topografico-economico attraverso la qualità e quantità delle coltivazioni, del prezzo degli affitti delle case e dei terreni, ecc. e così, veniamo a conoscenza delle entrate del nostro Carlo Alberto, attraverso le sue dichiarazioni.
Per affitti di case riscuote da Maria Daverio lire 20; da Giuseppe Macchi lire 15; da Gerolamo Macchi lire 15. Dal canonico Emilio Grandi per affitto di 4 pertiche di aratorio in Azzate riscuote lire 9. Possiede in Azzate un torchio da vino. Riscuote in Gazzada per affitti di case lire 91. Riscuote per livelli in Gazzada lire 52 e per decime 9 stari di frumento, 18 stari di mistura da Bartolomeo Ravarini.
Riscuote per livelli in Brunello 11 stari di frumento, 17 stari di mistura e lire 8 da Francesco Maria Tamborini; 1/2 brenta di vino, 2 stari di frumento, 7 stari di mistura da Pietro Castelnuovo; lire 6 da Giovanni Romagnoli; stari 14 di frumento e stari 19 di mistura più lire 15 da Carlo Francesco Martignoni; lire 12 da Giuseppe Martignoni; stari 8 di frumento e stari 63 di mistura più lire 10.10 da Carlo Antonio Castelnuovo; lire 10 da Paolo Faglieta.
Accanto a tante entrate ha, naturalmente, anche delle uscite e sono rappresentate da lire 100 che paga a Giacomo Tamborini per un livello in Gazzada.
Ma, se conosciamo le sue entrate fondiarie, non ci sono note le entrate che provengono dalla sua professione che dovevano essere molto elevate non sembrandoci quelle appena elencate sufficienti a coprire le spese di una famiglia che viveva nel lusso e nell’abbondanza.
Il suo matrimonio con la nobile Isabella Bossi sembra sia stato allietato da una sola nascita, cosa abbastanza inusuale per i tempi, ma assicurò l’erede maschio al quale fu imposto il nome di Giuseppe.
Nel 1758 viene detto abitante in Azzate, si suppone nella villa dei genitori.
Nel 1762 è proprietario di un terreno in Castronno che fa coerenza con la Selva di
Sant'Alessandro. (Vedi doc. n. 598).
Molto più avanti negli anni, succede a norma dell'art. 14 del Reale Decreto 10.2.1809, e come risulta dal pagamento dei Carichi fatto dal suddetto Giuseppe Alemagna dal 1789 in avanti, come dai confessi dei Ricevitori Comunali ai consorti Bassani nei mappali n. 534, 892 e 896. (Vedi il n. 125 delle volture catastali).
L'11 maggio 1810 acquista un’altra porzione del mappale n. 896 da Antonio Bassani nella Cascina di Vegonno.
Occupa alcune strade che portano al lago. (Vedi doc. n. 510).
Possiede nel Castello di Azzate una casa colonica dove è sito un torchio di cui ne usano
gratuitamente i coloni del conte Giulio Cesare Bossi. (Vedi doc. n. 2090).
Acquista da Lorenzo Obicini, per cambio fra loro, il mappale n. 264, come da scrittura privata
del 26.8.1818 firmata dalle parti e testimoni ed autenticata dal notaio Teodosio Cesare Savini
il 20.11.1818. (Vedi il n. 25 delle volture catastali).
Il conte Giuseppe muore a Milano il 26 settembre 1818 lasciando alcuni figli tra cui il conte Giacomo che gli succede assieme ai fratelli per disposizione testamentaria del 3 febbraio 1816 stata aperta davanti all'I.R. Tribunale di Prima Istanza di Milano il 28 settembre 1818 e dal medesimo fatta da  mettere nei rogiti del dott. Benedetto Cacciatore notaio residente in Milano. (Sono molti mappali per un totale di pertiche 404).
Dal conte Giacomo nascono quattro figli: Carlo, Alessandro, Marianna che sposa Baruffini, e Leopolda.
Quello che si mette in maggior rilievo è Alessandro che per cessione fattagli dai fratelli, ed anche a titolo di acquisto, viene in possesso di tutta la partita di pertiche 404, come risulta da istrumento di divisione del 1° maggio 1820 rogato dal dott. Benedetto Cacciatore notaio residente in Milano.
(Vedi il n. 36 delle volture catastali).
Ma, ahimè, due mesi dopo Alessandro dimostra di non avere più interesse per Azzate e tutti i suoi beni immobili in zona vengono venduti a don Antonio Orrigoni fu Tommaso, come da istrumento 27 luglio 1820 rogato dal dott. Benedetto Cacciatore notaio residente in Milano. (Vedi il n. 38 delle volture catastali).
Sulla villa di Azzate si affaccia un nuovo proprietario!



Gio. Maria Alemagna
"... L'ultimo testamento del 26.10.1630 è di Caterina Fantona, anch'essa infetta dalla peste probabilmente a causa del suo gesto generoso verso la cognata Antonia Bossi. Caterina è moglie di Giuseppe Daverio che si presume morto perché, bandito dal Ducato da 12 anni, non ha più dato notizia di sé. Ella dispone che sia restituito un prestito li lire 55 fatto a lei, che vive in comunione di beni col cognato Pietro Francesco Daverio, da Gio. Maria Alemagna, da restituirsi entro Natale senza interessi". (Estratto dal testamento di Caterina Fantoni del 26.10.1630).


Gio. Maria Alemagna
   |
   |
   |--- Gio. Battista Alemagna
         Il 28 gennaio 1697 è presente come testimone ad un
         istrumento di vendita. (Vedi doc. n. 2.216).



Domenico Antonio Alemagna
Il 10.9.1765 viene investito da Claudio Luigi Bossi.
(Vedi doc. n. 130-151).




Giuseppe Alemagna.
Giureconsulto. Nel 1697 i suoi beni fanno coerenza da tre
parti con la selva detta il Rogoré in territorio di Castronno.
(Vedi doc. n. 761).
   |
   |
   |--- Pietro Giacomo Alemagna
         Nel 1722 possiede in Azzate pertiche 402.23 valutate
         scudi 2035.5.5
         (Il dottor Carlo Antonio Alemagna fq. Pietro Antonio
         di Varese, che non sappiamo in quale grado di parentela
         si trovi con Pietro Giacomo, nel 1719 dichiara di possedere
         in Azzate pertiche 275.12).

  
 


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| Pietro Giacomo Alemagna q. Giuseppe.                                            |
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|     1     | Pascolo boschivo di legna dolce                               | 11.22 |
|     9     | Palude                                                                     |   4.  6 |
|   12     | Palude                                                                     |   4.13 |
|   26     | Prato liscoso                                                            | 16.14 |                                                                      
|   30     | Prato liscoso                                                            |   8.11 |
|   38     | Prato liscoso e sortumoso                                         |   5.  2 |
|   49     | Prato liscoso con roveri di cima                                |   4.  7 |
|   50     | Prato liscoso con salici                                             |   3.  6 |
|   53     | Prato liscoso con roveretti                                        |   7.14 |
|   54     | Prato liscoso                                                            |   8.15 |
|   85     | Aratorio avidato con moroni e noci                           | 10.18 |
|   86     | Aratorio con salici dolci e roveri di cima                    | 16.13 |
| 116     | Aratorio avidato con roveri                                       | 27.  1 |
| 134     | Aratorio                                                                   |   5.18 |
| 135     | Aratorio avidato con moroni e noci                           | 21.  1 |
| 136     | Aratorio                                                                   |   7. -  |
|--------|------------------------------------------------------|--------|
                                                                                              402.23 |
                                                               del valore di scudi 2035.5.5

N.B. - Questi mappali sono solo dei terreni. Non possiede alcuna casa. E’ dunque da ritenere che Pietro Giacomo Alemagna non abitasse ad Azzate e le sue possessioni in paese fossero solo un investimento.


Pietro Antonio Alemagna
   |
   |
   |--- dottor Carlo Francesco Alberto Alemagna f. Pietro Antonio.
         n. 24.8.1672
         J.C.C. di Varese.
         Nel 1719 dichiara di possedere in Azzate pertiche 275.12
         Il 20 novembre 1760 sottoscrive la supplica per le variazioni
         del sommarione di Azzate.
         Pietro Giacomo Alemagna, che non sappiamo in quale grado
         di parentela si trovi rispetto al dottor Carlo Alberto, dal
         catastrino di Azzate risulta essere proprietario di pertiche
         402.23).
         Sp. 27.9.1693 Isabella Bossi f. Ippolito.
         + Varese 1751.
            | 
            |
            |--- conte Giuseppe Alemagna
                  + 26.9.1818
                      |
                      |
                      |--- conte Giacomo Alemagna
                                |
                                |
                                |--- Carlo Alemagna
                                |
                                |
                                |--- Alessandro Alemagna
                                |     Per cessione fattagli dai fratelli, ed anche a titolo
                                |     di acquisto, tutta la partita di pertiche 404 passa
                                |      al solo Alessandro, come risulta da istrumento di
                                |     divisione dell'1.5.1820 rogato dal dott. Benedetto
                                |     Cacciatore notaio residente in Milano.
                                |      Tutta la partita di pertiche 404 viene venduta a
                                |      don Antonio Orrigoni q. Tommaso, come da
                                |      istrumento 27.7.1820 rogato dal dott. Benedetto
                                |      Cacciatore notaio residente in Milano.
                                |      Il 2.6.1820 acquista dal padre porzione del
                                |     mappale n. 896.
                                |
                                |--- Marianna Alemagna
                                |     Sp. Baruffini.
                                |
                                |--- Leopolda Alemagna



Anno 1572. Atto per l'infeudazione ad Anguissola, non avvenuta.
Si parla di un Battista de Aleto figlio di Giovanni Antonio della castellanza di Biumo Inferiore. Vi compare anche uno Stefano de Aleto figlio del fu Clemente di Biumo Inferiore.

Anno 1702. Atto per l'infeudazione al duca Sanpietro, non avvenuta.
Vi compare un Giovanni Aletto figlio del fu Carlo e un Giuseppe Aletto figlio del fu Stefano.

Anno 1766. Atto per l'infeudazione al duca d'Este.
Compaiono questi personaggi, tutti della castellanza di Biumo Inferiore:

Giovanni Battista Aletto
Carlo Martino Aletto
Bellardo Aletto
Giovanni Aletto
Stefano Aletto
Giovanni Maria Aletti (sic)
Francesco Aletto



12.5.1572
Stefano Alemagna
   |
   |
   |--- Laura
   |     Sp. Antonio Bossi f. Francesco.
   |
   |--- Angelica Alemagna
         Sp. Francesco Bossi.
            |
            |
            |--- Gian Maria Bossi


USO GRATUITO DEL TORCHIO DI PROPRIETA' DEL CONTE ALEMAGNA DA PARTE DEI COLONI DEL CONTE GIULIO CESARE BOSSI.                                                                                       N. 2.090

Il conte Giulio Cesare Bossi, in esecuzione dell'eredità di Donna Veronica Velati, godeva un antico diritto di usare gratuitamente il torchio da uva sito nella casa colonica del conte Alemagna nel Castello di Azzate.
Questo torchio andò distrutto verso il 1792, quando la casa colonica fu acquistata da Giuseppe Luzzi.
Nel 1767 deve essere insorta qualche controversia in merito all'uso gratuito che di esso ne facevano i coloni del conte Bossi e possediamo le dichiarazioni sottoscritte da sette coloni, esibite al conte Alemagna che, molto probabilmente, ne contestava l'uso.
Riassumiamo i punti più interessanti di queste dichiarazioni:

- si ricordano di essere sempre andati "a caspiare le uve" nel torchio del conte Alemagna;
- hanno caspiato sia le uve dominicali (quelle che erano di spettanza del proprietario del fondo) che quelle coloniche;
- non hanno mai pagato una lira al massaro del conte Alemagna (a quel tempo era certo Carlo Giovanni Guaralda);
- hanno trattenuto per sé le "vinazze". (Esse erano probabilmente il compenso che si usava pagare al proprietario del torchio);
- nessuno si è mai opposto all'uso gratuito del torchio che godevano i coloni del conte Bossi (fra questi vengono annoverati coloni
  non solo di Azzate ma anche di Buguggiate, Montonate e Caidate).

Queste dichiarazioni sono rilasciate dai seguenti coloni del conte Giulio Cesare Bossi:

- Isabella moglie di Giovanni Mantico, figlia di Francesco Tamborini detto il Trollo, che godeva in
  affitto terre in Montonate e Caidate da più di tredici anni. (Dichiarazione del 9 settembre 1767);
- Giovanni Battista Ghiringhelli detto il Marchese (per il quale si sottoscrive Antonio Isella, per
  non saper egli scrivere) che gode il diritto da undici anni. (Dichiarazione del 9 settembre 1767);
- Giacomo Magni (per il quale si sottoscrive Antonio Francesco Ballerio, per non saper egli scrivere)
  subentrato nella possessione già goduta da Francesco Tamborini detto il Trollo. (Dichiarazione del
  14 settembre 1767);
- Antonio Lozza fu Gioachino che gode in affitto la Molarga e il Ronchetto di Loné dal 1752 al 1757 e
  gli subentra Giovanni Mantico detto il Rolino. (Dichiarazione del 28 settembre 1767);
- Giovanni Mantico detto il Rolino (per il quale si sottoscrive Antonio Isella, per non saper egli
  scrivere). (Dichiarazione del 29 settembre 1767);
- Antonio Francesco Ballerio che gode in affitto da vent'anni la possessione detta del Cazago.
  (Dichiarazione del 29 settembre 1767);
- Gerolamo Gervasini che gode dal 1762 la possessione della Molarga e del Ronchetto. (Dichiarazione
  del 30 settembre 1767);

Nel 1767, anno delle dichiarazioni, amministrava le proprietà del conte Alemagna certo Carlo Antonio Bossi.
(Un dato interessante: tre su sette coloni non sanno scrivere!)

(Riassunto dei lucidi dal n. 19 al n. 25)
Una lettera senza data scritta da Camillo Bossi al conte Giulio Cesare Bossi ci aiuta a spiegare come il conte Bossi fosse venuto in possesso del diritto di usare il torchio del conte Alemagna in virtù delle disposizioni testamentarie di Veronica Velati.
Detta lettera, fra le altre cose, dice: "... Ricordo che il mio signor padre (che era Carlo Antonio Bossi, come risulta dalla dichiarazione di Isabella Mantico del 9 settembre 1767) amministrava i beni della signora donna Veronica Velati da che ho avuto l'uso della ragione e ho sempre veduto, anzi assistito in persona, a far caspiare non solo la parte dei massari ma anche la dominicale di tutti i luoghi del territorio di Azzate, compresa anche la masseria di Montonate a me lasciata per testamento dalla fu donna Veronica Velati. Di questa verità ne sono così sicuro, sicurissimo che potrei giurarlo sul mio onore e quel che più conta sull'anima mia".
Di questo Camillo Bossi non conosciamo nulla, ma è attraverso il suo nome che ci siamo ricollegati a suo nonno, anch'egli di nome Camillo. Questi aveva sposato nel 1655 Barbara Bossi, figlia di Bernardo (il feudatario di Oggiona e Santo Stefano) e dal loro matrimonio il 23 settembre 1661 era nata, tra gli altri, Veronica che possiamo senz'altro ritenere la Veronica Velati in questione.
Da una relazione extra coniugale del predetto Camillo con Francesca Martignoni nacque Carlo Antonio, che fu legittimato, e che generò a sua volta un figlio al quale fu dato lo stesso nome del nonno, appunto Camillo.
Dal nonno di Veronica Bossi maritata Velati, cioè Bernardo Bossi, nacque anche Claudio che generò Paolo Maria dal quale nacque il conte Giulio Cesare.


LA STORIA COLLATERALE DEI BOSSI

Così come gli Alemagna, anche il ramo dei Bossi da cui trasse origine la nostra Isabella si estinse in lei e nelle sue tre sorelle. Esse nacquero tutte ad Azzate dalla seconda moglie di Don Ippolito cioè Isabella Maria Bianchi; soltanto Isabella nacque altrove e non conosciamo nemmeno quando. Se fosse nata dalla prima moglie di Don Ippolito cioè Giulia Quartieri figlia di Rinaldo e vedova di Gio. Andrea Tettoni, morta ad Azzate il 28 novembre 1654, allora Isabella si sarebbe sposata in età piuttosto avanzata, come minimo all'età di 39 anni.
A ben considerare questa famiglia fu piuttosto sfortunata. Infatti il padre don Ippolito sposò una vedova che non sappiamo quanto tempo dopo morì; si risposò e vide morire anche la seconda moglie.
Miglior sorte non toccò a lui, pover'uomo, che morì per un incidente il 6 novembre 1681 in una strada "ammazzato dal proprio cavallo" come registrò il parroco di Azzate nel registro dei morti, lasciando cinque figlie in tenera età: Paola Gerolama Prassede di 6 anni, Giulia Ippolita di 5 anni (che sposò il 2 ottobre 1691 Gio. Battista Orrigoni figlio del fu Ottavio di Biumo), Margherita Bona di 3 anni, Clara Isabella di 2 anni e Isabella di cui non conosciamo l'età.
Mi accorgo a questo punto di essere incorso in un probabile errore. Avrei potuto rifare questo paragrafo senza lasciare traccia delle errate interpretazioni, ma voglio far partecipe il lettore delle considerazioni che mi hanno convinto di aver sbagliato, così anch'egli potrà seguire come è stato messo insieme questo articolo.
La cosa che mi ha messo sul chi va là sono i nomi delle ultime due figlie di don Ippolito Bossi: Clara Isabella e Isabella.
Bisogna dire che quando veniva amministrato il battesimo era usanza imporre al neonato due o tre nomi che potevano anche essere di più per i rampolli delle famiglie più facoltose ed importanti.
Nel nostro caso vediamo che alla primogenita di don Ippolito Bossi venne imposto il  nome di Paola Gerolama Prassede.
Poiché a quel tempo da un matrimonio nascevano numerosi figli e la mortalità infantile era molto elevata, avveniva che ad uno dei figli venisse dato come secondo nome (o anche come primo nome, ma meno frequentemente) quello di un altro figlio morto in precedenza.
Nel nostro caso avevo ipotizzato:
1) Clara Isabella
2) Isabella.
Stando a quanto appena detto la successione dovrebbe invece essere ribaltata nel modo seguente:
1) Isabella
2) Clara Isabella
ove si suppone che Isabella sia morta e, alla figlia nata in seguito, sia stato dato il nome di Clara Isabella.
Ma noi sappiamo che Isabella si sposò con Carlo Alberto Alemagna e quindi non poteva essere morta e, del resto, è poco probabile che ad una seconda figlia sia stato dato lo stesso nome della prima.
Consideriamo poi che non sempre, dei due o tre nomi che venivano imposti, era il primo ad essere effettivamente usato; capitava spesso che si assumesse per nome abituale il secondo ed è proprio il nostro caso in cui Clara Isabella assunse il nome abituale di Isabella. Ne consegue che Clara Isabella e Isabella sono la stessa persona e non due come ipotizzato. Infatti di Isabella, non ritrovando nei registri parrocchiali di Azzate l'annotazione del suo battesimo, avevo ipotizzato che fosse nata altrove e fosse stata generata nel primo matrimonio di don Ippolito con Giulia Quartieri, dal quale invece non si ebbe prole.
Altra considerazione: c'era da chiedersi come mai Isabella, che reputavo la più anziana, con i genitori ormai morti (tra l'altro la seconda moglie di don Ippolito cioè Isabella Maria Bianchi morì proprio di parto dando alla luce Clara Isabella, che spiega anche il fatto di come sia invalso l'uso del secondo nome, in memoria della madre) e con tre sorelle in tenera età, si fosse permessa il lusso di accasarsi così tardi. Invece si sposò quando aveva appena 14 anni e sua sorella Giulia ne aveva 15, in modo che un marito (tra l'altro facoltoso!) potesse provvedere loro.
Ecco spiegata anche la dispensa delle pubblicazioni che avvenne per i due matrimoni, che in un primo momento avevo giustificato come segno di "distinzione" degli sposi ed invece era piuttosto una dispensa per la minore età.
Dai testimoni che parteciparono al matrimonio di Giulia e di Isabella sembra di poter dire che ormai queste poco più che fanciulle non erano più considerate nel "gioco dei matrimoni" della grande famiglia o consorteria dei nobili Bossi, la cui politica fu sempre quella di mantenere in seno alla famiglia il patrimonio con frequenti, per non dire esclusivi, matrimoni fra Bossi e Bossi. Infatti nel caso dei matrimoni che stiamo considerando non intervenne alcun rappresentante della nobile famiglia Bossi: nel primo matrimonio furono testimoni il reverendo Gio. Evangelista Cattaneo, cappellano dello sposo, ed il chierico Ambrogio Orlandi; nel secondo furono testimoni una certa Giuliana vedova di un Pietro Gerolamo e Margherita Albini del fu Andrea.
Tutte queste persone non hanno lasciato traccia in Azzate e danno l'impressione di essere state messe insieme alla bella e meglio. Ma ancora più strano è il fatto che queste due sorelle, che pur dovevano essere dotate di un buon patrimonio, si siano accasate con personaggi fino ad allora sconosciuti in Azzate, e gli altri Bossi non abbiano cercato di impossessarsi delle loro ricchezze che comprendevano, tra l'altro, la villa in Azzate.
In questo modo, come già era avvenuto per la sorella del loro nonno cioè donna Bianca Bossi che aveva sposato Gerolamo Tettoni, portandosi in dote la villa poi detta Benizzi-Castellani, con il matrimonio di donna Giulia e donna Isabella entrarono rispettivamente nel patrimonio delle famiglie Orrigoni ed Alemagna altre due ville di Azzate, che fino ad allora erano state il segno tangibile della grandezza dei Bossi. (Salvo miglior controllo, sembra che Giulia si sia portato in dote la villa poi detta Mazzocchi).
Mi sembra che il discorso sin qui fatto possa essere maggiormente avvalorato se analizziamo i personaggi che invece intervennero come padrini ai battesimi delle figlie di don Ippolito Bossi, quando cioè lui era ancora vivente e manteneva salde relazioni con la grande famiglia Bossi.
Due volte compare come madrina Gerolama che aveva sposato Gio. Battista Bossi che si collega a donna Bianca Bossi, trisnonna dei neonati; una volta compare suo marito; tre volte compare Carlo Francesco Bossi figlio di Pietro Gerolamo, discendente da un ramo collaterale, facente capo al capostipite Montolo Bossi.


Ma riportiamoci alla data di costruzione della villa e cioè all'anno 1567. Un anno prima don Ippolito Bossi, discendente da quel Matteo che aveva riedificato la villa poi detta Benizzi-Castellani, si sposò con donna Bianca Bossi, discendente dai possessori della villa poi detta Riva-Cottalorda.
Il 20 aprile 1566 venne stipulato il contratto nuziale tra il futuro sposo don Ippolito ed i fratelli della futura sposa Don Gio. Antonio e Don Gio. Battista Bossi e venne stabilita la dote in lire 6.200 imperiali delle quali: 4.000 sarebbero state pagate subito dopo la celebrazione del matrimonio e le rimanenti lire 2.200 entro dieci anni con l'interesse del 5%
Lo sposo, da parte sua, avrebbe aumentato la dote di altre lire 500.
Oltre ai stipulanti si sottoscrissero: il fisico Gio. Antonio Bossi, il giureconsulto Simone Bossi ed il reverendo Luigi Daverio curato di Azzate.
Il 30 luglio 1566 venne rogato il formale contratto dal notaio, il nobile Gio. Battista Buzzi, che nel 1551 si era unito in matrimonio con un'altra figlia di Stefano Bossi cioè Elisabetta e che  quindi, rispetto ai contraenti da parte della futura sposa e di ella medesima era cognato.
  



                                        Stefano Bossi                                      Marco Matteo Bossi
                                                  |                                                                 |
                                                  |                                                                 |
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    |                                             |                     |                   |                        |
    |                                             |                     |                   |                        |
Elisabetta                       Gio. Antonio   Gio. Battista    Bianca sp. 1566 Ippolito
Sposa 1551 nob. Gio.                                                         |                        |
Battista Buzzi, notaio.                                                          |                        |
                                                                                           |----------------|

Con questo matrimonio il ramo dei nobili Bossi che comunemente viene detto "del Lodigiano" si trapiantò definitivamente in Azzate e diede origine ad un'altra "consorteria" che, però, nel giro di tre generazioni si estinse. Nel caso specifico avvenne la connessione tra il ramo Bossi "del Lodigiano" e quello di Milano detto del "Passerino"", così come già in precedenza era avvenuta una connessione tra questo ramo ed il ramo dei conti Bossi del Castello di Azzate, quando Matteo Bossi (fratello del nonno di Don Ippolito) aveva sposato nel 1499 Polissena Bossi figlia di Luigino. Ed è probabilmente proprio in questa occasione che il ramo Bossi "del Lodigiano", che fino ad allora aveva avuto interessi a Meleto Lodigiano e a Milano, conobbe il nostro paese e nel giro dei matrimoni e delle alleanze fece in modo che un suo discendente lo scegliesse come sua dimora stabile. Si ha l'impressione però che questo ramo si sia trapiantato ad Azzate più per ragioni economiche contingenti che per tradizione. Infatti, così come Matteo Bossi sembra sia venuto in possesso di quello che poi divenne la villa Benizzi-Castellani, togliendola al patrimonio dei Bossi azzatesi, suo nipote Ippolito venne in possesso di quello che poi divenne la villa Alemagna-Ferrario, togliendola al patrimonio dell'altro ramo Bossi cosiddetto di Milano ma con una grande tradizione azzatese.
La figlia di Ippolito portò poi in dote nella famiglia Tettoni di Novara la villa poi detta Benizzi-Castellani, così come le nipoti di suo figlio portarono nella famiglie Alemagna ed Orrigoni altre due ville.
Si ha l'impressione che questo ramo Bossi si sia insinuato nella grande compagine Bossi più tipicamente azzatese e ne abbia frantumato e disperso il grande patrimonio immobiliare. Oppure potrebbe essere che la famiglia Bossi del castello di Azzate si sia effettivamente "arroccata" nel castello e abbia poi edificato in paese altre ville per i rami collaterali.
In effetti la prima impressione che si ha avvicinando i Bossi è quella di vederli nel loro castello, così come suggeriscono i trattati di araldica e gli studi genealogici in cui viene riportato: "Bossi, conti, del castello di Azzate".
Questa tuttavia è una visione limitativa e alla luce di tutte le testimonianze lasciate dai Bossi lungo diversi secoli in Azzate e fuori, va allargata.


 Un istrumento rogato dal giureconsulto Ludovico Pusterla il 2 giugno 1600 mi serve poi per chiarire e convalidare quanto ho sin qui ipotizzato.
Il perno su cui ruotano le mie argomentazioni è Matteo Bossi figlio di Ippolito (ramo cosiddetto del Lodigiano) e Bianca Bossi (ramo di Milano).
Matteo sposò nel 1597 Margherita Bossi figlia di Gio. Battista (ramo di Azzate) e, di conseguenza, abbiamo che nel giro di due generazioni si incrociano tra loro i tre rami principali della nobile famiglia Bossi.
Ora avviene che, con l'istrumento appena ricordato, Matteo Bossi abitante in Azzate fa donazione dei suoi beni mobili ed immobili a sua madre Bianca Bossi (ramo di Milano).
Stupisce il fatto che Matteo, allora 32enne, sposato da appena 3 anni, si decida a fare questa donazione che dà l'impressione di voler riportare il suo patrimonio in seno al ramo Bossi di Milano, stando anche alle varie disposizioni stabilite dal donatore.
In esso venne infatti disposto che, qualora fosse morta la prima donataria, ossia la madre Bianca, sarebbero succeduti i figli maschi del donatore con l'obbligo di disporre di una giusta dote a favore delle figlie femmine. In loro mancanza, sarebbe succeduta Margherita Bossi, moglie del donante. In mancanza anche di questa, sarebbe succeduto Gio. Battista Bossi figlio di Stefano, suo zio materno.
Per cui si ha, come abbiamo appena detto, che nei due casi estremi la donazione sarebbe andata a profitto del ramo Bossi di Milano. In realtà le cose andarono in modo che la donazione fu a vantaggio dei suoi figli, in quanto abbiamo visto che le sue nipoti portarono in dote quella che poi fu la Villa Alemagna e la villa Mazzocchi.


Un ulteriore contributo nella comprensione del ruolo che hanno avuto i vari rami della famiglia Bossi ci può venire dalla comparazione dei quattro rami principali, in un periodo di quattro generazioni, che stanno in tempi più remoti rispetto ai fatti che stiamo considerando.
Il ramo che espresse i personaggi di maggior spicco fu quello di Azzate che, quasi certamente, per essere stato il più vicino al governo dei duchi di Milano riuscì ad ottenere maggiori vantaggi e benefici. Fu il primo che ottenne feudi e concessioni che andarono ad arricchire il patrimonio familiare. Azzate fu sotto il loro dominio e Luigino Bossi venne anche in possesso del feudo di Meleto Lodigiano, che attraverso il matrimonio della figlia Polissena, passò al ramo da cui discese Matteo Bossi.
In questo modo andrebbe anche corretta la denominazione di "ramo del Lodigiano" poiché non è nient'altro che una diramazione del ramo di Azzate.
Il ramo di Montolo espresse personaggi che esercitarono la professione notarile di padre in figlio. Un personaggio che primeggiò sugli altri fu Giovanni Bossi padre di Matteo, di cui un epitaffio conservato nella Chiesa dell'Incoronata di Milano ci dà un buon profilo.
Gli altri due rami (di Milano e di Musso) hanno espresso personaggi che furono per lo più impiegati nell'amministrazione pubblica con gradi superiori: ci furono infatti dei decurioni e dei senatori.
Attraverso opportuni e strategici matrimoni (coi Visconti, coi Besozzi e con i Castiglioni), se non aumentarono, di certo consolidarono la loro posizione sociale.
In questo quadro di buoni e nobili personaggi (Simone Bossi ebbe il titolo di conte palatino; i fratelli Antonio e Stefano Bossi furono riconosciuti nobili milanesi nel 1513) si inserì il ramo di Azzate che espresse senza dubbio gli uomini di maggior prestigio: un Francesco vescovo di Como; un altro Francesco vescovo di Novara; un Baliolo signore di Azzate nel 1416; un Antonio consigliere dei Visconti e degli Sforza; un Luigino che acquistò il Feudo di Meleto Lodigiano; un Egidio che acquistò nel 1538 il Feudo della Val Bodia; un Marco Antonio cavaliere aureato, conte palatino, ambasciatore di Filippo II presso gli Svizzeri; un Bernardo che acquistò il Feudo di Oggiona e S. Stefano in Pieve di Gallarate.
(Vedi doc. n. 2.064 c'è l'albero genealogico di questi ultimi personaggi, che qui non trascrivo).


SCRITTA SUL CAMINO

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| HOMINEM QUI ME GENUIT SINE ME NON NASCITUR IPSE |
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L'uomo che mi generò senza di me non nasce egli stesso.

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In villa c'era la cappella privata.










Dal conte D. Giuseppe Alemagna q. Pietro Giacomo a Alemagna conte Giacomo, Carlo, Alessandro, Marianna maritata Baruffini e Leopolda nubile fratelli e sorelle q. conte Giuseppe, successi dopo la morte del loro padre conte Giuseppe seguita in Milano il 26 Settembre 1818 e per disposizione testamentaria del 3 febbraio 1816 stata aperta avanti l’I.R. Tribunale di prima istanza di Milano il 28 Settembre 1818 e dal medesimo fatta deporre nei rogiti del notaio Benedetto Cacciatore residente in Milano.
I mappali sono i seguenti:

n. 1 di pertiche 11.22
n. 9 di pertiche 4.6
n. 12 di pertiche 4.13
n. 26 di pertiche 12.-
n. 26 ½ di pertiche 4.14
n. 30 di pertiche 8.11
n. 38 di pertiche 4.6
n. 49 di pertiche 4.7
n. 50 di pertiche 3.6
n. 53 di pertiche 7.14
n. 54 di pertiche 8.15
n. 85/1 di pertiche 6.18
n. 85/2 di pertiche 4.-
n. 86/1 di pertiche 8.1
n. 86/2 di pertiche 7.-
n. 86/3 di pertiche 1.12
n. 116 di pertiche 1.18
n. 134 di pertiche 5.18
n. 135/1 di pertiche 12.1
n. 135/2 di pertiche 9.-
n. 136 di pertiche 7.-
n. 142/1 di pertiche 4.-
n. 142/2 di pertiche 3.22
n. 142/3 di pertiche 1.-
n. 144 di pertiche 8.16
n. 166 di pertiche 4.18
n. 168/1 di pertiche 4.6
n. 168/2 di pertiche 1.-
n. 168 ½ di pertiche 0.18
n. 170/1 di pertiche 8.-
n. 170/2 di pertiche 5.-
n. 170/3 di pertiche 5.-
n. 170/4 di pertiche 1.8
n. 188 di pertiche 2.9
n. 191 di pertiche 6.18
n. 191 ½ di pertiche 4.4
n. 191 ¼/1 di pertiche 3.14
n. 191 ¼/2 di pertiche 3.14
n. 249 di pertiche 16.3
n. 250 di pertiche 3.12
n. 251 di pertiche 4.19
n. 252 di pertiche 14.18
n. 257 di pertiche 12.12
porzione del n. 264 di pertiche 1.15
n. 283 di pertiche 2.13
n. 309 di pertiche 3.1
n. 319 di pertiche 5.6
n. 358/1 di pertiche 5.4
n. 358/2 di pertiche 2.16
n. 455 di pertiche 1.5
n. 470 di pertiche 3.4
n. 471 di pertiche 1.14
n. 472 di pertiche 2.2
n. 473 di pertiche 8.3
n.474 di pertiche 2.3
n. 475 di pertiche 8.19
n. 479/1 di pertiche 6.12
n. 479/2 di pertiche 0.12
n. 483/1 di pertiche 9.5
n. 483/2 di pertiche 0.18
n. 489/1 di pertiche 3.13
n.489/2 di pertiche 3.13
n. 490/1 di pertiche 6.14
n. 490/2 di pertiche 0.12
n. 502 di pertiche 10.18
n. 508 di pertiche 1.15
n. 514 di pertiche 0.13
n. 516 di pertiche 13.10
porzione del n. 534 di pertiche 0.4
n. 553 di pertiche 2.2
n. 555 di pertiche 2.1
n. 562 di pertiche 4.3
n. 564 di pertiche 3.11
n. 566 di pertiche 2.15
n. 567 di pertiche 5.19
n. 578 di pertiche 2.1
n. 598 di pertiche 3.18
n. 601 di pertiche 1.22
n. 655 di pertiche 3.5
n. 691 di pertiche 3.12
n. 701 di pertiche 0.21
n. 848 di pertiche 0.18 (Casa Michelin-Eusebio)
n. 868 di pertiche 3.8 (Villa Alemagna-Ferrario)
n. 869 di pertiche 1.16
n. 889 di pertiche 1.- (Corte Tesser vecchia Casa Bernasconi)
porzione del n. 892 di pertiche 0.2 1/6
porzione del n. 896 di pertiche 0.1 (Vegonno)
n. 906/2 di pertiche 0.19 (Cascina Fiori)
per un totale di pertiche 404.21 1/6

Il solo D. Alessandro acquista tutta la partita di pertiche 404.21 1/6 per cessione fattagli dai fratelli ed anche a titolo di acquisto come risulta da istrumento di divisione 1° Maggio 1820 del notaio Benedetto Cacciatore residente in Milano.

Tutta la partita di pertiche 404.21 1/6 da Alemagna D. Alessandro q. Conte Giuseppe[4] passa a Orrigoni D. Antonio q. Tomaso, per acquisto come da istrumento 27 Luglio 1820 del notaio Benedetto Cacciatore residente in Milano.
 

Alemagna di Varese, conti. Vedi albero genealogico al n. 10.028 da "Almanacco della famiglie nobili" vedi il n. 5.034


ERSILIA BAVASSANO VEDOVA BAFFI

Molti se la ricorderanno come quella distinta signora con i capelli bianchi sempre molto curati che assisteva alle funzioni religiose in chiesa parrocchiale ad Azzate con una particolare devozione.
Percorreva quel poco tratto di strada che separava la Villa Ferrario dalla chiesa parrocchiale in compagnia della sua dama di compagnia, Lidia Giamberini , appoggiandosi su un bastone che, anziché denotare la sua deficienza ambulatoria, le conferiva maggior alure.

Fu soltanto dopo la sua morte che, grazie all’interessamento di Ezio Giamberini, nipote della dama di compagnia, potei visitare il suo appartamento che era stato ricavato al primo piano della vasta Villa Ferrario e scattare qualche fotografia degli affreschi che ornavano le sue pareti. Si dice che fossero opera del pittore Giovanni Battista Del Sole.









Nella ristrutturazione di due locali annessi alla villa sono venuti alla luce alcuni affreschi e soffitti a cassettoni che dimostrano chiaramente essere stati in passato parte integrante della villa stessa.








DEL SOLE GIOVANNI BATTISTA

Figlio di Pietro, anch'egli pittore, nacque a Milano o nel Ducato milanese, intorno al 1615 1625. Apprese dal padre i primi insegnamenti pittorici; nulla si conosce sulla sua successiva formazione, ma con certezza si può asserire che essa non si svolse all'Accademia ambrosiana di Milano (che, fra l'altro, era stata chiusa nel 1630 a causa della peste e che fu riaperta solo nel 1669).
La sua attività artistica è documentata per trenta anni, dal 1644 circa, in campo sia pittorico sia incisorio, con una produzione certamente più cospicua rispetto a quanto oggi si conosce. Delle sue opere attualmente note la maggior parte può essere sistemata in una convincente ordinazione cronologica; per altre, invece, mancano dati sufficienti.
La prima opera attribuibile con certezza al Del Sole è databile al 1644 ed è una serie di ventuno acqueforti eseguite in collaborazione con G.P. Bianchi, su disegni di C. Storer, per il volume Racconto delle sontuose esequie fatte alla Serenissima Isabella Reina di Spagna..., edito a Milano nel 1645, che descrive ed illustra gli apparati allestiti in duomo. Al 1649 risale invece la Battaglia di Azio, un soggetto che l'artista dipinse per uno dei pannelli allestiti in occasione delle feste in onore di Anna d'Austria e posti dentro ad archi celebrativi costruiti intorno a Porta Romana; il medesimo soggetto venne poi inciso dall'artista anche in un'acquaforte, inserita nel volume La pompa della solenne entrata fatta dalla Serenissima Maria Anna Austriaca... (Milano 1651), che contiene anche incisioni di C. Storer, G. Cotta e G. Quadrio.
Di un'attività pittorica del Del Sole in questo periodo apparentemente non si hanno notizie, anche se essa è ipotizzabile. In base alle date conosciute, sembrerebbe che abbia assunto una certa consistenza solo più tardi; le prime commissioni a noi note risalgono intorno al sesto decennio. Infatti la sua presenza come pittore in S. Eustorgio a Milano è documentata in un periodo compreso fra il 1653-1657: nel 1653 è da ritenere infatti che egli abbia eseguito un affresco oggi perduto, posto sul pulpito in. pietra eretto davanti alla chiesa e raffigurante un Miracolo di s. Pietro da Verona, mentre agli anni seguenti è riconducibile la decorazione ad affresco nella cappella Torelli, nella stessa chiesa, con un ciclo di Storie di s. Domenico.
A questo periodo, e più precisamente al 1656, risale l'acquaforte, datata, ritraente il Sepolcro di Enrico Settala, che si trovava nella chiesa di S. Francesco a Milano, andata distrutta nel 1807. Dalla scritta presente in tale stampa si ricava la notizia che il Del Sole aveva eseguito un dipinto sul sepolcro, con una scena di battaglia che si riferiva alla crociata cui aveva partecipato il Settala. Di tale dipinto, malamente riprodotto nella stessa acquaforte, parla anche il Torre (1674, p. 201).
Dopo questa prima attività milanese l'artista ricevette commissioni prima a Varese (qui nel 1658 dipinse la volta dell'oratorio di S. Giuseppe: l'opera è datata e firmata, con alcune figure di angeli e puttini) e poi in provincia di Pavia. Nel 1661 infatti stipulò un accordo con i responsabili della chiesa di S. Pietro Apostolo a Broni (Pavia) per sei quadri raffiguranti la Storia di s. Contardo, da collocarsi nell'omonima cappella; l'accordo venne negli anni seguenti modificato ed aumentò il numero dei dipinti commissionati. Di questa decorazione, che copriva in pratica tutta la cappella, si conservano solo gli affreschi della parete sinistra.
Il ritorno a Milano avvenne intorno al 1663, probabilmente al termine della commissione di Broni. Nel capoluogo lombardo il Del Sole eseguì sette dipinti su lapislazzulo, oggi perduti, per il museo di Manfredo Settala: di due soli, raffiguranti Galeone e Galea e un Porto di mare, è noto il soggetto dalle descrizioni del Terzago (1664).
Qualche anno più tardi, probabilmente nel 1669 o nel 1670, il D. lavorava per il convento di S. Angelo a Milano, compiendovi un olio su tela raffigurante S. Pietro d'Alcantara, la cui canonizzazione era avvenuta nel 1669; quest'opera, tuttora in loco, è stata in passato attribuita, per confusioni di nomi, al bolognese Giovan Gioseffò Dal Sole, ma senza alcun fondamento. Per lo stesso convento, nel secondo chiostro della chiesa, il D. compì forse un affresco con Storie di s. Francesco , ricordato anche in una fonte manoscritta conservata all'Archivio storico di Milano (Annotazioni, post 1746); tale chiostro e i dipinti in esso contenuti sono andati distrutti durante il secondo conflitto mondiale.
Disperse risultano inoltre altre quattro opere milanesi eseguite in questo stesso periodo: un altro S. Pietro d'Alcantara e un Cristo morto, realizzati per l'oratorio di S. Francesco nella chiesa di S. Maria della Pace, soppressa nel 1805; una Erodiade, realizzata per la chiesa di S. Giovanni alle Case Rotte; e infine un gruppo di affreschi nelle sale del palazzo ducale, probabilmente compiuti nel 1665, anch'essi oggi non più esistenti.
Entro il 1671 deve essere collocata l'esecuzione di un olio su tela, La morte del giusto, per la cappella del Suffragio dei morti, nella chiesa di S. Biagio a Caprino Bergamasco (oggi conservata nella sacrestia della medesima chiesa), poiché di tale dipinto si fa menzione in una relazione redatta appunto nel 1671 da G. B. Natali, curato di Caprino Bergarnasco.
L'anno seguente il D. ricevette l'incarico per un grande dipinto (350 × 800 cm) raffigurante La battaglia di Lepanto, per la cappella del collegio "Ghislieri" a Pavia. L'attribuzione di tale opera, oggi conservata nella sala Pio V del medesimo collegio, è stata in passato controversa, volendola alcuni assegnare a G. G. Dal Sole, ma il ritrovamento del manoscritto con la descrizione della visita pastorale del 1673 (conservato al collegio) permette di assegnare con certezza al Del Sole l'esecuzione del dipinto, stabilendone anche i pagamenti.
Per un'altra Battaglia di Lepanto, di minori dimensioni, conservata a Broni (Pavia), nella cappella del Rosario nella chiesa di S. Pietro Apostolo l'assegnazione è da considerarsi possibile, ma non suffragata al momento da alcun obiettivo documento, salvo labili assonanze stilistiche, che non escludono che l'esecuzione di questo dipinto possa essere opera di qualche imitatore della Battaglia del collegio "Ghislieri".
A probabilmente da collocare durante questo soggiorno pavese anche l'acquaforte Ildiacono Liutprando alla presenza dell'imperatore d'Oriente, il cui soggetto è legato ad avvenimenti storici riferentesi alla città, della quale la stampa mostra anche un'ampia veduta.
L'ultima opera in ordine di tempo (intorno al 1680) attribuibile al D. è Le Marie al sepolcro, un affresco nella cappella di S. Marta in S. Vittore a Varese, che taluni vorrebbero di mano di Pietro Del Sole, padre del D. ma che una critica più recente tende a restituire a Giovanni Battista.
Oltre alle opere fin qui descritte, sono da citare alcune acqueforti, per le quali apparentemente non vi sono elementi utili per una datazione, come la S. Famiglia, desunta da un soggetto di F. Perrier, e una Allegoria della Chiesa, firmata e indicante Milano come luogo di esecuzione. A queste si può aggiungere un'altra incisione solo dubitativamente riferibile all'artista: un Frontespizio con l'incontro della contessa Matilde.
Numerose sono, anche in campo pittorico, le opere di cui si hanno solo notizie frammentarie dalle fonti, come i due dipinti, citati genericamente nell'inventario manoscritto della famiglia Mazenta del 1672 (pubblicato dal Verga, 1918, p. 281), o un Angelo, un tempo conservato a Treviso nella raccolta degli eredi Corniani degli Algarotti-Peruzzolo. Va ricusata per motivi cronologici l'attribuzione al D. degli affreschi della cappella di S. Tommaso nella chiesa di S. Angelo a Milano, eseguiti intorno al 1620-1630; mentre la Presentazione al tempio (Vaduz, collezione dei principi di Liechtenstein) è opera plausibilmente di G. G. Dal Sole.
Per quanto concerne i disegni, poco o nulla si può dire con certezza. Alcuni sono conservati all'Ambrosiana di Milano, ma la loro attribuzione appare quanto meno discutibile. Per la restante attività in questo settore è possibile avere solo notizie indirette, o dalle iscrizioni presenti in talune sue incisioni, o da acqueforti eseguite da altri artisti con soggetti tratti da suoi disegni: in questo senso si conosce un Ritratto maschile, inciso da G. B. Bonacina, e si ha notizia dal Füssli (1819) di altri soggetti, di cui uno inciso da H. Winstanley.
Nessuna notizia precisa si ha sulla data di morte del Del Sole: certo essa non è avvenuta, come sostiene P. Zani, nel 1719, confondendosi con quella di G. G. Dal Sole; rispetto ad essa deve essere verosimilmente anticipata, e comunque collocata dopo il 1673, ultimo anno nel quale è documentata con certezza l'attività dell'artista.


(Estratto da Wikipedia).

GIOVANNI BATTISTA DEL SOLE E LA CAPPELLA D. S. MARTA IN S. VITTORE A VARESE
di Laura Basso
(da: TRACCE, Edizioni Victor, n. 4, 1988).

La cappella dedicata a S. Marta, che conclude il braccio destro del transetto in S. Vittore a Varese, fu eretta tra il 1583 e il 1604. La cappella fu sede dell'omonima confraternita, titolata anche a S. Giovanni Decollato, che sovvenzionò i lavori per la costruzione dell'altare, documentati tra il 1627 e il 1630. Non conosciamo invece l'anno in cui venne collocata la pala dell'altare, copia della Deposizione di Cristo (Milano, S. Fedele) dipinta da Simone Peterzano prima del 1591. I documenti d'archivio tacciono sugli stucchi, peraltro databili al pieno seicento per l'esuberanza dei motivi decorativi, festoni di frutta, girali, ecc., che arricchiscono le cornici, colmando ogni spazio. Non è possibile però precisare se la loro realizzazione sia coeva alla decorazione a fresco considerando la differenza tra il numero delle scene, commissionate nel 1670, e quello delle cornici.
L'insieme di questi dati porta a constatare che l'impegno assunto dalla confraternita di S. Marta per la propria sede si concretizzò in due momenti: il primo entro il 1630, data fatidica per la storia dell'arte lombarda; il secondo entro l'ottavo decennio del seicento.
E' ora possibile documentare questa seconda fase avendo ritrovato il contratto steso nel 1670 tra i confratelli di S. Marta e i pittori Giovanni Battista Del Sole e Federico Bianchi che si impegnavano a dipingere a fresco la cappella entro il mese di luglio del 1671.
Il documento, già considerato perduto, ha un valore innanzitutto iconografico perché elenca e descrive diciannove scene, che corrispondono esattamente alle pitture oggi visibili, attraverso le quali i committenti intendevano illustrare i fatti principali delle sante Maria Maddalena e Marta con particolare riferimento a quest'ultima e ai miracoli compiuti dopo il suo arrivo in Provenza. In questo senso ho creduto opportuno trascrivere in appendice questa parte del contratto che ha un certo interesse anche sotto il profilo giuridico - per l'elenco degli obblighi e dei diritti delle parti contraenti - oltreché essere indicativo del gusto dei committenti. Il documento inoltre permesse di sciogliere i problemi relativi alla data di esecuzione, già indicata tra il 1680-82, e soprattutto quello dell'identità di uno dei pittori, quel Giovanni Battista Del Sole, inizialmente identificato nel padre Pietro.
Anche per questo motivo, in questo articolo ho voluto esaminare l'attività pittorica di Giovanni Battista Del Sole, dedicandogli uno spazio maggiore rispetto a quello dato a Federico Bianchi, al fine di attribuire ai due pittori le parti rispettivamente affrescate; un'impresa pittorica che per ora niente ci vieta di pensare effettivamente realizzata entro il 1671.
L'elenco delle opere fino ad oggi reperite di Del Sole inizia con due soggetti celebrativi che Marco Bona Castellotti ha dissepolto dall'anonimato, al quale erano iscritte negli inventari dell'Accademia di Brera, datandole al 1650.
Le due vaste tele, rappresentanti forse Episodi dell'ingresso di Maria Anna d'Austria - avvenuta a Milano nel 1649, - esprimono un linguaggio ormai maturo, caratterizzato da cadenze veneziane e, in particolare, da accenti di memoria veronesiana nel modo di campeggiare le figure, riprese con punti di vista ribassati contro gli ampi spazi del cielo. Ma la consonanza con l'area veneta insiste soprattutto nella scelta cromatica e nelle lumeggiature che percorrono i due quadri.
In uno di questi, l'ampia scena raffigurante L'assedio di una città assume particolare interesse quale punto di riferimento con le numerose opere di anonimi "pittori di battaglie", un genere da approfondire in area lombarda e di cui il Del Sole ha lasciato altre testimonianze sia come frescante sia come incisore.
A mio parere le tele dell'Accademia di Brera sono prossime, per taglio compositivo e per impostazione spaziale, ai due affreschi raffiguranti Episodi della vita di S. Domenico posti nell'omonima cappella (Milano, S. Eustorgio). Di questi sappiamo che erano già compiuti entro il 1674; poco dopo Federico Bianchi avrebbe completato la volta della stessa cappella, iniziata da Carlo Cornara.
Benché non siano in buono stato di conservazione, questi affreschi sono ancora leggibili nella struttura compositiva, insistita sul piano orizzontale e nettamente distinta in due zone. Così, come nelle tele di Brera, l'affollamento dei personaggi disposti quasi a parata acquista maggior evidenza rispetto alla zona superiore dove ampie distese di cielo sono limitate da ideali e complesse architetture.
Anche se di maggior impegno composito, l'intervento di Giovanni Battista Del Sole in S. Eustorgio si presta senz'altro ad un confronto con quello in S. Vittore. La medesima tecnica ad affresco permette di rilevare la stessa scelta cromatica dei toni rossicci dove spiccano i bianchi gessosi e la stessa esecuzione sciolta, spesso sfumata, quasi affrettata nelle parti secondarie; caratteri stilistici che si osservano agevolmente in tutti i pannelli della parete sinistra della cappella varesina, compreso le Marie al sepolcro e, a mio parere, in gran parte di quelli della volta. Infine si annota nella scena raffigurante S. Marta vince il drago Tarasque - lesena sinistra - la scelta di ambientare l'episodio contro una fantastica quinta architettonica.
A Varese, Giovanni Battista Del Sole aveva già lavorato dipingendo a fresco, nel 1658, la volta della chiesa di S. Giuseppe; qui è interessante mettere a confronto gli affreschi con Scene della vita di David, interpretate da Melchiorre Gherardini nei toni chiari di una favola serena, con l'opera di Del Sole impegnato a non scadere nella ripetizione raffigurando sessanta angiolotti, oltre il riquadro centrale con l'Eterno Padre, che per tipologia, volumi e scelta cromatica ben si legano alle pesanti cornici di stucco e all'apparato ligneo della chiesa, espressione tra le più coerenti e meglio conservate del '600 varesino.
Tra il 1661-63, Giovanni Battista Del Sole è impegnato in un ciclo di affreschi che narrano, con immagini semplici, essenziali, di genere quasi devoto, La vita di S. Contardo (Broni, Basilica di S. Pietro  Apostolo). E' utile il confronto tra le figure secondarie di questo ciclo con quelle che appaiono nelle scene raffiguranti Marta sanata da Cristo o Il popolo di Marsiglia invoca S. Marta (parte sinistra della cappella) per notare quanto poco variasse il repertorio del pittore a distanza di un decennio.
Anche nell'interpretazione di nuovi personaggi, come La gloria di S. Pietro d'Alcantara (Milano, S. Angelo dei Frati Minori) effigiato poco dopo la sua canonizzazione avvenuta nel 1669, il Del Sole appare legato ad uno schema sorpassato e ormai generico, mancante inoltre di quella compartecipazione emotiva propria della precedente generazione di pittori legati alla controriforma, di cui nella stessa di S. Angelo, il Del Sole aveva una vivida testimonianza nell'Estasi di S. Carlo del Morazzone.
La tela raffigurante La morte del giusto (Caprino Bergamasco, chiesa di S. Biagio), documentata al 1671, si avvale ancora di un repertorio manieristico nelle figure dei comprimari in primo piano, di cui all'estrema destra di profilo ritorna tale e quale nel riquadro Gesù in casa di Marta e Maddalena (parete sinistra della cappella). Anche in questo caso i contatti con l'area veneta tornano puntuali, anzi con alcune concessioni al tardo Quattrocento, come l'apertura paesaggistica inquadrata dalla finestra sullo sfondo.
L'elenco delle opere fino ad oggi note si conclude con la grande tela, ennesima celebrazione della Battaglia di Lepanto (Pavia, Collegio Ghislieri), documentata al 1673, per la quale Franco Maria Pesenti indica una stretta dipendenza, non solo iconografica, con il Tintoretto.
L'attività di Giovanni Battista Del Sole, puntualmente e fortunatamente documentata e datata a differenza di quelle di tanti altri artisti, emerge dunque dall'oblio e si presenta oggi con esiti convincenti specialmente nelle tematiche celebrative profane, inquadrata e allineata con l'ambiente artistico della capitale lombarda impegnata, a partire dal quarto decennio, nel rinnovamento in chiave "barocca" delle dimore pubbliche e private e degli edifici di culto.
In questo contesto il pittore si dimostra discretamente svincolato dalla formazione della generazione controriformista, ed a quanto la scuola di Ercole Procaccini il Giovane continuava a produrre, in stretto collegamento con Cristoforo Storer e con Giuseppe Nuvolone.
Per concludere, la presenza a Varese di Giovanni Battista Del Sole, rappresentante di una pittura "d'effetto", si lega con quella di Giovanni Ghisolfi, che assieme a Bernardo Racchetti affrescò nel 1675 il presbiterio, e di bernardo Castelli che eseguì tra il 1675 e il 1690 i pulpiti e le cantorie: un insieme di artisti chiamati negli ultimi decenni del '600 ad aggiornare in chiave "barocca" l'interno di S. Vittore.
Il contratto steso tra i confratelli di S. Marta e i due pittori non dà indicazioni sulla distribuzione dell'incarico; l'esame delle opere sopra descritte mi induce ad assegnare a Giovanni Battista Del Sole l'esecuzione della parete sinistra ed anche i riquadri della volta, tranne quelli relativi all'Estasi di S. Marta e alla Morte di S. Marta che, assieme alle scene della parete destra, sono opera di Federico Bianchi.
I due pittori inoltre affrescarono le pareti esterne delle lesene, non contemplate nel contratto: a sinistra, Giovanni Battista Del Sole l'Erodiade con la testa di S. Giovanni Battista e S. Agostino (?); a destra, Federico Bianchi S. Giovanni Evangelista e S. Gerolamo (?). Resta infine sospesa l'attribuzione dei numerosi angiolotti dai caratteri formali generici, dipinti per colmare gli spazi restanti.
L'intervento a due mani nella decorazione a fresco appare discordante e ciò si coglie innanzitutto nella scelta cromatica; calda sui toni rossicci quella operata da Del Sole, che impiega una pennellata sciolta e sfumata, a volte sfrangiata, con "rialzi" di colore nei particolari d'effetto. Sui toni chiari, spesso freddi quella di Federico Bianchi, che usa invece riempire ampie campiture con colori compatti.
Ma nei due artisti vi è soprattutto una diversa sensibilità nell'affrontare i soggetti. La Pittura di Del Sole tende a stupire e si compiace dei particolari; quella di Bianchi ha un'interpretazione più contenuta e sobria che si avvale sempre di una formazione manieristica ma emendata e corretta in chiave di composto atteggiamento: Come esempio si possono citare i due grandi pannelli centrali, ma ancor più calzante, per l'identità del soggetto, è il pannello raffigurante S. Marta vince il drago Tarasque.
Nella cappella di S. Marta, le prove migliori di Federico Bianchi sono da vedere, a mio avviso, nella scena del Miracolo dell'annegato e nei due pannelli della volta già citati, caratterizzati dall'essenzialità dell'impaginazione e dalla sapiente costruzione degli scorci. Oltre a ciò, l'eleganza delle figure e la grazia e delicatezza dei volti, costanti che connotano la vasta produzione di questo artista, hanno un riferimento preciso nella scena della Resurrezione di Cristo,  tipologicamente identico a quello dipinto nell'Apparizione di Cristo ai SS. Teresa e Giovanni della Croce (Milano, S. Maria del Carmine).


Secondo il prof Silvano Colombo gli affreschi della Villa Bossi-Alemagna (appartamento della Signora Ida Pinardi) sono di Go. Battista Del Sole.