venerdì 28 febbraio 2014

Lucia di Azzate - la strega impiccata nel 1588

Nel mese di febbraio 2014 si è costituito su Facebook un gruppo denominato “Sei di Azzate se ….” che ha dato modo agli iscritti di scambiare le loro opinioni sui fatti e sui personaggi del loro paese.
Ad un certo punto l’argomento è caduto sulla cosiddetta strega Lucia di Azzate che nel 1588 fu impiccata a Varese e questo avvenimento fu commentato secondo le conoscenze che ognuno possedeva. La povera disgraziata venne accostata in un primo momento al personaggio romanzesco di Baitella e soltanto dopo diverse interpretazioni  passate in rete si giunse finalmente ad individuare il personaggio che venne effettivamente trattato nella Cronaca di Varese, un antico manoscritto riproposto da Gio. Antonio Adamollo e aggiornato nel 1747 da Luigi Grossi.
Per una corretta interpretazione del personaggio abbiamo dovuto attingere dagli scritti di diversi autori che presentiamo integralmente qui di seguito e chiudiamo l’argomento con una accorata lettera scritta dalla stessa Lucia che esce dalla fantasiosa penna di Andrea Della Bella.





APPUNTI SULLA PENA CAPITALE A VARESE FRA CINQUE E SEICENTO
Uno spaccato di storia criminale e giudiziaria in piena dominazione spagnola da cui affiora la disparità che, anche nell’amministrazione della giustizia, caratterizzava il rapporto tra centro e periferia del Ducato, e attraverso il quale scopriamo, per una serie di reati ritenuti gravi, forme di supplizio incredibilmente crudeli, in cui l’esemplarità della pena avrebbe dovuto agire da deterrente.

                                                                                           di Giuseppe Vottari

In un torno d’anni violento e inquieto per l’ordine pubblico quale certamente fu il passaggio fra XVI e XVII secolo, e non solo per l’area lombarda ma più in generale per tutta quella mediterranea, il ricorso alla morte come pena ebbe “larga applicazione repressiva e generalizzata”. Come è stato acutamente evidenziato: “All’ondata di dilagante criminalità che, con ferimenti, omicidi, assalti, minacce, litigi, conflittualità permanenti pressoché quotidiane mise a dura prova le autorità – specialmente a cavallo fra ‘500 e ‘600 – si rispose rimuovendo totalmente le cause sociali di tale situazione,con un aggravamento generalizzato delle pene, nell’intento di incutere timore, per prevenire i crimini”. La logica che sottendeva a questa politica, comune nelle società europee d’antico regime, era basata sul “principio dell’esemplarità della pena come deterrente”. Esistono buoni studi sull’applicazione delle pena di morte a Milano in età spagnola e tra i più significativi si segnala quello di Giovanni Liva da cui abbiamo tratto le precedenti citazioni.
Intendiamo qui abbozzare un tentativo di confronto sul ricorso alla pena di morte fra la realtà milanese e quella varesina nel periodo 1571-1630, fra centro e periferia del dominio spagnolo strategicamente più importante in Italia, alla ricerca di eventuali peculiarità degne di nota nell’amministrazione delle giustizia del borgo prealpino.
E vale la pena di segnalare subito che Varese era uno dei tanti luoghi periferici o di frontiera dello stato di Milano in cui l’esercizio della giustizia, nei decenni considerati, era tutt’altro che agevole o privo di rischi. A questo riguardo, in una supplica del 1574 scritta dai varesini a Milano, si può leggere: “l’ufficio della Podesteria del borgo di Varese, et sua giurisdizione, è di tanta importanza che in nessun ufficio del Stato, riservando la città, si agitano tante cause criminali et anco civili” e per questo si raccomandava che l’ufficio fosse affidato a un dottore (podestà) “sufficientemente versato et pratico” piuttosto che a un “dottore giovine et novizio, et che habbi esercito officio”. La metafora che accompagna e illustra la richiesta varesina merita di essere ripresa per intero: “ Li ucelli quando incominciano a volare debbono fare i suoi voli corti, et poi di mano in mano, con la pratica et esercitatatione dilungarsi”.
Non sappiamo se la supplica del 1574 ottenne qualche risultato, quel che sappiamo per certo è che anche nei decenni successivi l’ufficio podestarile di Varese dovette far fronte a centinaia di cause criminali, alcune delle quali lo riguardarono molto da vicino. Nel 1628, per esempio, il podestà del borgo, l’autorità locale che amministrava la giustizia ed era in continuo contatto con gli uffici giudiziari e criminali di Milano, fu bersagliato di un assalto a colpi d’archibugio nella pubblica via e uno degli ufficiali che lo scortavano ne rimase ferito: Solo uno dei quattro assalitori armati fu catturato, gli altri riuscirono a scappare. Ecco spiegato perché si richiedeva a Milano podestà esperti, pratici e di polso fermo!
In età moderna sia i reati contro le persone che quelli contro la proprietà o lo Stato (e in quest’ultima categoria rientravano quelli contro la religione) se giudicati ‘gravi’ potevano portare a una sentenza di condanna alla pena capitale.
Per i reati meno gravi invece erano previste pene che spaziavano dalla multa pecuniaria alla punizione corporale – che in guerra era eseguita pubblicamente e consisteva nella somministrazione di 'tratti di corda' (riservati anche agli insolenti alle multe) – dalla ‘galera’ sulle navi come ciurma o rematori al bando dallo Stato, per finire con la confisca, temporanea o definitiva, dei beni mobili e immobili del condannato.
Il carcere non era un luogo di detenzione in cui scontare una condanna, le prigioni in genere ospitavano criminali colti sul fatto o sospetti in attesa di sentenza, oppure soldati nemici da riscattare o scambiare con altri prigionieri di guerra. E non sempre erano fortilizi di massima sicurezza: nel settembre 1575 dal carcere di Varese evasero sei detenuti in una sola volta mentre nel novembre 1625 ne scapparono tre.
A fronte di un numero di condanne a morte, l’istituto della grazia era applicato abbastanza largamente tramite gride di impunità, remissioni o liberazioni anche per i reati più gravi, e di esso beneficiavano in special modo gli abbienti e i nobili. A Varese, per esempio, lettere di grazia ratificata dal Senato milanese ‘liberarono’ condannati a morte per omicidio nel 1574, 1579, 1591 e 1629. Va segnalato che il periodo intercorso fra la condanna a morte e la grazia che l’annullava spaziava, nei quattro casi considerati, da un minimo di due a un massimi di tredici anni. Ma è bene non dimenticare che se i tempi per ottenere la grazia potevano rivelarsi estremamente lunghi, quelli della giustizia ordinaria, nel caso non si avessero la possibilità o i mezzi per affidarsi a un legale e opporsi alla sentenza capitale, rischiavano invece di essere spietatamente rapidi. Così “Cristoforo Ponticello cognominato il Maghella”, ladro e bandito, condannato a morte insieme a tre suoi complici dal podestà di Varese l’8 agosto 1592, il 24 dello stesso mese fu con loro”appiccato” sulla pubblica piazza del borgo.
Per quanto ora accennato, occupandoci della pena capitale non faremo riferimento alle condanne inflitte dalle corti giudiziarie, condanne che in gran parte erano in contumacia (delle 19 condanne a morte emesse dal podestà di Varese nel 1628, 18 erano tali), quanto alle sentenze effettivamente eseguite. E’ inoltre opportuno segnalare che non esistono serie di dati complete e inoppugnabili in proposito e anche quelli da noi proposti mirano solo a consentire un confronto omogeneo fra le due realtà prescelte.
A questo punto qualche numero è indispensabile per avviare il discorso. Per Milano, fra il 1571 e il 1630, Liva ha trovato tracce documentarie di 826 sentenze di morte effettivamente eseguite. A Varese, nello stesso periodo, seconda la Cronaca di Varese di Adamollo e Grossi, ne furono portate a termine 32.
Nel sessantennio preso in esame Milano contava una popolazione stimabile in 100.000 abitanti mentre quella di Varese e delle sue castellanze si attestava intorno alle 5000 unità. A fronte di una popolazione venti volte maggiore di quella del borgo prealpino, la capitale dello Stato di Milano fu teatro, a cavallo fra XVI e XVII secolo, di un numero di esecuzioni capitali ventisei volte superiore. La media milanese si attestava intorno alle quattordici esecuzioni l’anno, quella varesina era prossima a una ogni due anni. Dal punto di vista meramente quantitativo quindi, il dato varesino non pare essere particolarmente significativo rispetto a quello milanese. Restano però da verificare le motivazioni delle condanne capitali per operare un confronto casistica fra i reati puniti con la morte al centro e alla periferia dello Stato di Milano.
Accanto all’omicidio, i delitti ricorrenti nelle motivazioni delle sentenze di morte milanesi del periodo considerato erano: furto, falsificazione e spendita di monete false, ‘sfroso’ di generi alimentari o manufatti, prevaricazione ai danni di comunità, eresia, stregoneria, maleficio, infanticidio, bigamia, sodomia, incesto, esercizio del sacerdozio senza essere prete, ribellione e assassinio di strada. Le coeve sentenze varesine ricalcano su scala minore quelle milanesi, ma allo stesso tempo pongono in evidenza, per l’incidenza sul totale delle condanne a morte, un particolare reato sugli altri, quello dell’assassinio di strada. Nel borgo prealpino infatti delle 32 sentenze di morte eseguite nel frangente 1571-1630, a fronte di 4 per omicidio e di 6 per furto, ben 16 riguardano aggressori e/o assassini di strada.
Secondo Liva l’assassinio di strada era “il reato di coloro che – prevalentemente in bande armate – praticavano assalti e rapine ai danni di mercanti o viaggiatori, che percorrevano le principali vie di comunicazione. Fenomeno criminale di origine prettamente rurale, questo delitto era allora ritenuto fra i più gravi, ed era punito con notevole severità, ma non come reato associativo – banda armata -, configurazione quest’ultima che nelle società di antico regime non venne mai prefigurata”. Per intendere in cosa consistesse la ‘severità’ cui accenna Liva, conviene rifarsi alle parole di un altro storico, Mario Bendiscioli, circa modalità e finalità della morte come pena, evento che come noto, durante tutta l’età moderna, fu uno degli ‘spettacoli’ pubblici a più alto richiamo di folla. Scrive Bendiscioli: “Anche le esecuzioni capitali erano accompagnate da crudezze, per così dire accessorie: la forma più mite, riservata ai nobili, era la decapitazione sul pubblico palco; quella più spietata era l’abbruciamento dal vivo del condannato, pena solita di eretici, sodomiti, falsari, previe mutilazioni, e lo squartamento mediante cavalli, coll’issamento macabro dei ‘quarti’ di membra nei luoghi dove i malandrini di strada, ai quali questa pena era riservata, avevano compiuto le loro gesta. Evidente, nella qualità e misura di queste pene nonché nella raffinata crudeltà della esecuzione, l’intento dell’esemplarità, di incutere terrore, il terrore delle conseguenze della violazione delle norme”, intento, conclude lo studioso, non raggiunto proprio per l’enormità della pena, come gli stessi governatori avrebbero constatato più avanti.
L’assassinio di strada apparteneva quindi al ristretto novero dei reati considerati ‘atroci’ dall’autorità giudiziaria, reati da punire con la massima severità, togliendo la vita al reo in modo spietato e spettacolarmente macabro al contempo. A conferma della crudezze riservate agli assassini di strada si possono leggere i dati su Milano del periodo 1591-1610 proposti da Liva. In questo ventennio furono eseguite 316 condanne a morte di cui 107, pari al 34%, con esacerbazioni. Furto, omicidio e assassinio di strada risultano i reati per cui più spesso furono applicate le esacerbazioni o crudezze. Delle 24 condanne a morte per assassinio di strada eseguite a Milano fra il 1591 e il 1610 ben 17, ossia il 71%, comportarono esacerbazioni, la più comune delle quali, come visto, era lo ‘squartamento mediante cavalli’.
A Varese le esacerbazioni non erano nella norma e in genere gli aggressori o assassini di strada venivano o semplicemente impiccati o ‘appiccati’ sulla pubblica piazza come gli altri condannati a morte. Delle 32 esecuzioni capitali prese in esame solo quattro furono eseguite tramite decapitazione. Di queste, due coinvolsero donne: nel 1579 Marta di Albiolo, in quanto ritenuta strega, e nel 1621 Margherita Baroffio di Vedano, rea di omicidio. Raramente a Varese i condannati a morte venivano ‘tirati a corda di cavallo’, ossia ‘trascinati’ sulla strada nel percorso dal carcere al patibolo. Subirono questo trattamento nel 1579 il vercellese Gerolamo Gozio e nel 1615 il ‘benestante’ varesino Camillo Martignoni che aveva ucciso, con la complicità del fratello, la sua giovane serva e amante dopo aver scoperto che era incinta del fidanzato. La Cronaca di Varese registra però anche alcuni casi di crudezze post-mortem: alla fine del gennaio del 1583 “fu appiccato e poi decapitato Gio Pietro Marocco omicida” e nell’aprile 1591 “Gio Batta Gatto di Venegono, aggressore di strada, omicidiario, ecc. fu appiccato in Varese avanti il palazzo di giustizia poi squartato, ed i suoi quarti esposti per più ore alla pubblica vista”. Nel luglio 1597 invece “Franco Barbato di Venegono Inferiore, aggressore ed omicida fu appiccato indi decapitato, e la spesa fu ripartita come al solito”.
A proposito delle spese per le esecuzioni capitali, più volte la Cronaca specifica che venivano “ripartite sulle terre della pieve in proporzione del sale che a quelle dallo Stato si somministra cadaun anno”. Le cifre ‘ripartite’ sono specificate solo in alcuni casi. Nel 1588, per esempio, l’impiccagione di Lucia di Azzate per opera del boia di Lugano, alla cui opera spesso si ricorreva a Varese, costò 35 ducati; nel 1591 per l’impiccagione e lo squartamento dell’assassino di strada, cui prima abbiamo accennato, si spesero invece ben 310 ducati. E nel 1619 per la fustigazione pubblica di un truffatore di Bosto, quindi per una semplice punizione corporale, non si spesero meno di lire 70, somma con cui a Varese a inizio Seicento era possibile affittare per un anno una casa con cucina e bottega a pianterreno affacciate sulla corte, alcune camere da letto al primo piano e sopra questo il solaio e il sottotetto. Nel 1621 infine, l’impiccagione simultanea di un uomo e di una donna “rei d’omicidio proditorio” comportò un esborso di lire 525. Con tale importo, al mercato settimanale di Varese del lunedì in quegli anni un compratore scaltro poteva acquistare ‘a credito’, con pagamento dilazionato e rateizzato, un cavallo, una vacca, una coppia di buoi e almeno dieci brente di vino (circa 750 litri). Ovvero quanto bastava a far felice un contadino e la sua famiglia per un’annata e più!
Pare comunque di capire che, una volta ripartite fra le ventisei comunità pievane, le spese sostenute a Varese fra Cinque e Seicento per le esecuzioni capitali fossero tali da incidere troppo negativamente sui bilanci delle stesse.
L’assistenza spirituale e materiale ai condannati a morte era invece appannaggio della confraternita di Santa Marta, attiva nel borgo sin dall’inizio del XV secolo. L’istituzione “contava fra i suoi ascritti persone cospicue, possedeva entrate proprie, nonché la cappella di S. Marta entro la basilica di S. Vittore, alla cui fabbrica essa presiedeva”. Per volere di Carlo Borromeo nel 1574 la confraternita varesina fu ‘aggregata’ a quella di San Giovanni Decollato in Roma, mentre nel 1694 strinse sodalizio con quella di San Giovanni Decollato alle Case Rotte, detta dei Bianchi, di Milano. Fino alla soppressione Giuseppina del 1786 la confraternita “nominava ogni anno i propri officiali, faceva vendite e investiture, accettava legati, soprintendeva alla gran processione del venerdì santo, denominata dell’Entierro, e assisteva i condannati a morte in quel territorio, accompagnandoli al patibolo”.
Ma torniamo ora all’assassinio di strada. Si è in precedenza accennato al fatto che questo reato era fenomeno tipicamente rurale e veniva spesso commesso da bande armate. A Milano, nel 1585, ci fu l’esecuzione collettiva di un gruppo di sei assassini di strada; a Varese nel 1592 cinque assassini di strada vennero giustiziati insieme e nel 1629 la stessa sorte toccò ad Angelo Bianchi e ai quattro ‘compagni’ della sua banda. Un quinto componente, catturato in seguito, fu impiccato un mese dopo.
Glia aggressori e/o assassini di strada attivi nel Varesotto agivano però anche in coppia (come i due svizzeri giustiziati nel 1628) o da soli. E’ comunque seguendo le gesta compiute tra il 1562 e il 1563 da una banda di criminali di strada che possiamo provare a rispondere a due quesiti rimasti fino ad ora accantonati: chi erano gli aggressori di strada? Chi le loro vittime?
Il capobanda era un comasco, Gio Pietro Perlascono, già luogotenente del commissario di Como, poi disertore e fuggiasco quindi, insieme a doversi complici, autore di ruberie e delitti lungo le strade del Varesotto. Una volta catturato con l’intera sua banda, nel 1563, il Perlascono fu oggetto di una contesa giurisdizionale fra Varese e Como. Il podestà di Varese voleva giustiziare la banda Perlascono al completo nella sua giurisdizione “a fine ancora di spaventare simili sclerali, che nel avvenire non habbino ardire” di tormentare il Varesotto e i suoi abitanti. Il podestà di Como invece voleva il trasferimento del Perlascono nella città natale per giudicarlo dei reati lì compiuti, anteriori a  quelli varesini. Il governatore dello Stato, chiamato a decidere sulla controversia, appoggiò la posizione comasca. Così l’ex pubblico ufficiale Perlascono non fu giudicato per i suoi reati commessi nel Varesotto. Questi ultimi includevano l’aver rubato del formaggio a delle povere donne; il furto di 3 ducati a dei poveri “strepazochi”; quello di tre “sciopi da Ruota” provenienti dalla Germania a un servitore di don Fabio Visconti, cui erano destinati, con ferimento alla testa del servitore; la rapina di 13 reali a un mercante varesino; l’aver finto di avere una patente sopra lo ‘sfroso’ del sale effettuando controlli e sequestri arbitrari.
Generi alimentari armi e denaro costituivano il bottino della banda Perlascono i cui assalti, più che organizzati o mirati, sembrano guidati da una cieca e disperata violenza pronta a travolgere tutto, comprese donne, poveracci e servi. Difficile immaginare sostanziali differenze in queste gesta criminali se a capobanda, al posto di un ex funzionario pubblico come il Perlascomo, c’era un soldato disertore o un contadino esasperato e incanaglito dalla vita. Tra le vittime ricorrenti degli aggressori e/o assassini di strada spiccavano i mercanti.
Nel passaggio tra Cinque e Seicento, malgrado il netto declino della fiera dei cavalli di Varese e del traffico mercantile internazionale ad essa legato, il mercato settimanale del lunedì continuava a essere meta di mercanti di grano, vino e bovini che concludevano transazioni con Svizzeri e abitanti delle pievi limitrofe al borgo. Attivo era anche il comparto tessile: pellicciai, vellutai, mercanti di capi serici e soprattutto di ‘drappi lana’ varesini erano impiegati a vendere i loro prodotti in tutto il circondario. Le strade del Varesotto, in definitiva, erano trafficate anche in quei decenni: prodotti della terra, capi di bestiame, manufatti tessili e denari vi transitavano con regolarità, esposti agli assalti degli assassini di strada. Come potevano difendersi i mercanti?
Nel 1582 Giorgio Porcata, mercante varesino che conduceva ‘traffici’ non meglio specificati in Germania, in Piemonte, a Bergamo e intratteneva rapporti commerciali con l’Ospedale Maggiore di Milano, chiese tramite il podestà di Varese di potersi muovere con una scorta armata a protezione di merci e denari. Il podestà appoggiò per iscritto la richiesta e la inoltrò a Milano, testimoniò la correttezza e l’onestà del Porcara, il suo essere dedito agli affari, nonché le minacce subite dal mercante sia da concorrenti invidiosi del suo successo che da banditi. La richiesta di autorizzazione non ottenne risposta.
Qualche tempo dopo però il Porcara spedì una nuova invocazione a Milano per ottenere licenza di poter armare a sue spese una scorta. Non ebbe soddisfazione neppure questa volta e ottenne invece solo una laconica risposta indiretta, affidata al retro della sua missiva: “Non conviene per ora”. I Mercanti, in genere, non potevano quindi fronteggiare i loro assalitori armi alla mano. La fuga e l’affidarsi alla sorte erano possibilmente la loro difesa più efficace.
Come già segnalato attraverso le citazioni di Liva e Bendiscioli, l’autorità giudiziale del tempo non era interessata a indagare le cause sociali della criminalità, né tanto meno a prevenirla o scoraggiarla con mezzi diversi dalla politica dell’esemplarità della pena come deterrente e monito al delinquere. Questa condotta informava anche i rapporti centro-periferia. Come dimostra il caso Porcara, se la periferia appoggiava o proponeva soluzioni diverse dalla linea ufficiale (contraria alla concessione dell’uso delle armi ai privati) le sue istanze non venivano recepite. L’amministrazione periferica della giustizia non aveva alcuna reale autonomia decisionale e la sua sostanziale inefficienza, determinata dalla cronica mancanza di uomini e di mezzi, è testimoniata dall’enorme numero di condanne a morte in contumacia nei confronti di latitanti, che tali restavano, in cui esauriva gran parte del suo operato.
Per concludere, possiamo osservare che, fra XVI e XVII secolo, la giustizia alla periferia dello Stato di Milano quando funzionava, e Varese pare essere un esempio significativo, riusciva a punire almeno parte di quei ‘reati atroci’ che più perturbavano l’ordine pubblico, tra cui appunto spiccava l’assassinio di strada,. Lo faceva con quell’esemplarità cieca e senza ritorno di cui la pena di mote era paradigma.








BAITELLA

Dal tranquillo mondo agreste di un Azzate ottocentesco si stacca la figura di Baitella “la più animosa, intollerante e caparbia abitatrice” del piccolo borgo più di duecento anni or sono.
Sul suo destino incombe, come una spada di Damocle, la sinistra predizione di una zingara: “Mia bella fanciulla, vedo scorrere vicino a te sangue e delitti; la tua terra natia ti ricusa un asilo, e tu sei colpita d’esecrazione e d’obbrobrio”.
Dotata dalla natura di una straordinaria bellezza e di un cuore ardente, Baitella è condannata dal proprio temperamento a una vita di sventure e di demenza. La predizione della zingara si avvera parola per parola, e alla fine Baitella, vittima della propria natura impulsiva e delle proprie funeste illusioni, aspramente condannata da un mondo sordo e ostile, appare degna di pietà, di quella pietà che i suoi compaesani le hanno negato fino in ultimo.
Una storia vera, umana, rimasta viva per lungo tempo nella memoria del popolo e ricostruita dalla penna di Cristoforo Orrigoni.
La prima edizione di Baitella è del 1857. La Pro Azzate, cui sta a cuore non solo il patrimonio naturale e artistico locale, ma anche quello delle tradizioni popolari, è andata a rispolverarla e la presenta ora in veste moderna, augurandosi di fare cosa gradita a tutti i concittadini e di suscitare in loro interesse per iniziative di questo genere.

CRISTOFO ORRIGONI

Della illustre famiglia degli Orrigoni di Milano, fu bisnonno della vivente (1964) n.d. Valentina
Ferrario e del compianto dottor Adolfo Ferrario. Uomo di mondo, dotato di una spiccata
sensibilità e corredato di una discreta cultura, viaggiò moltissimo per l’Europa, e sposò la danese
Dorotea Ludd. Coltivò con un certo amore le lettere e, costretto per ragioni di salute a passare
alcun tempo nella sua villa di Azzate (Villa Bossi-Alemagna-Ferrario in Via Volta), raccogliendo presso i contadini notizie locali, nel silenzio della solitudine del paesello trasse ispirazione per scrivere il racconto Baitella, nonché varie poesie, in lingua e in dialetto milanese, parecchie delle quali sono andate perdute. Delle sue esperienze di viaggio, delle sue osservazioni sulla vita, ci resta una raccolta di saggi inediti, del 1859, intitolata Ricordi, scene ed arcani della vita sociale.

(Estratto dai risguardi di Baitella e alcune poesie di Cristoforo Orrigoni, Edizioni Pro Loco Azzate, 1964).

Anna Marcaccioli Castiglioni, Streghe e roghi nel ducato di Milano. Prefazione di Fabio Minazzi. Milano,Thélema, 2000.
di Elena Urgnani

Le platee cinematografiche quest'anno si sono commosse di fronte al bel film di Paolo Benvenuti Gostanza da Libbiano, storia patetica di una povera donna, un'anziana contadina con conoscenze di erboristeria, accusata dall'Inquisizione di essere una strega e torturata senza pietà, fino a confessare ciò che non ha mai commesso pur di porre un limite alle sue sofferenze. La sua ammissione risulta tuttavia così incredibile, che l'inquisitore stesso dubita del risultato e decide di rimandarla libera, pur con la proibizione di esercitare la sua arte, e di continuare a risiedere nel villaggio.
Il film narra in effetti una della rare storie "a lieto fine" di questo tragico capitolo nella storia europea che fu la caccia alle streghe, un fenomeno che risulta difficile valutare, anche per la deliberata distruzione delle fonti storiche primarie. Così come altrove infatti, il grande archivio dell'Inquisizione dello Stato di Milano, un tempo conservato presso Santa Maria delle Grazie, fu consapevolmente dato alle fiamme, nel giugno 1788. Soltanto sporadicamente riaffiorano talvolta dagli archivi privati fascicoli che per un'imperscrutabile coincidenza di eventi erano stati "dimenticati" fuori dall'archivio. E' appunto il caso di questo fascicolo del Processus strigiarum, concernente la vicenda delle "streghe" di Venegono Superiore, interessante proprio per la "banale quotidianità" dei fatti che racconta, in questo caso infatti l'inquisizione non colpisce figure eminenti o intellettuali dissenzienti, ma donne e uomini del popolo, persone comuni. Come nota giustamente Minazzi nella sua prefazione, "questi scritti documentano analiticamente una prassi inquisitoriale che costituiva norma consuetudinaria in una società repressiva e intollerante, ma non ancora ristrutturata in senso decisamente controriformista".
Il 1520, anno in cui si svolge il processo, anticipa di alcuni decenni l'inquisizione moderna, quella che a partire da Sisto V diverrà la "Congregazione della Santa Inquisizione dell'eretica gravità", che avrebbe ristrutturato la tradizionale inquisizione medievale in nuove strutture centralizzate, più funzionali alla lotta contro l'eresia. In queste pagine è invece possibile riconoscere e ricostruire il funzionamento di un organismo di controllo sociale, politico e religioso che ha contraddistinto, nei secoli, la vita dei contadini cattolici in terra lombarda.

Il processo inquisitoriale si delinea dunque nei suoi elementi fondamentali: l'inversione dell'onere della prova, l'idea che l'accusato non abbia il diritto di essere giudicato dai propri pari, la segregazione e la tortura psicologica e fisica quale prassi procedurale, un iter giudiziario che non consente la difesa, poiché chiunque osasse difendere un sospetto sarebbe divenuto a sua volta sospettato. 
Il libro si configura quindi come una sorta di resistenza attiva al revisionismo, dilagante in questo settore, che pretenderebbe di presentare un'improbabile inquisizione "dal volto umano", molto clemente e sempre evangelicamente indulgente, quando non addirittura baluardo a difesa della discrezionalità del potere civile. La pervasività di questa "nuova" vulgata edulcorata è del tutto visibile e scoperta nelle opere di contenuto didattico, destinate alle scuole, come il volumetto di Marina Montesano Le streghe (Firenze, Giunti, 1996).
Un'altra inquietante tesi viene avanzata nell'introduzione: quella di un perdurare nel nostro sistema giudiziario di alcuni meccanismi tipici del processo inquisitoriale, laddove per esempio il tribunale italiano ha reintrodotto nella sua prassi istituzionale il ruolo e la figura del "pentito", "una classica figura inquisitoriale, del tutto legata ad un ambito morale e personale che, in tal modo, contamina e stravolge l'intero iter giuridico del processo.

Quanto al libro vero e proprio, di esso vorrei notare innanzitutto l'estrema leggibilità, un pregio non da poco in questo genere di studi scientifici, resa possibile dall'agile organizzazione dei capitoli, brevi e sintetici, che inquadrano gli avvenimenti e sono premessi alla vera e propria ripubblicazione degli atti del processo: "Storia di quanto accadde a Venegono Superiore nel 1520", "Inquisitori e autorità ecclesiastiche e civili", etc. Alla accurata descrizione del fascicolo si accompagnano poi alcune schede monografiche, una per ogni protagonista di questo processo, che si chiude con la condanna a morte tramite il fuoco di sette donne, di cui sei vive e una morta. L'unico uomo accusato, figlio e fratello di una di loro, riceve una pena più mite: l'esilio. Per ognuna ed ognuno dei protagonisti vengono descritti lo stato sociale, le accuse e il comportamento tenuto durante il processo. In genere dagli interrogatori si evince che le donne si sono autoaccusate di tutto: principalmente di aver ucciso bambini, ragazzi, buoi, porci, e di averlo fatto "toccando" la vittima, ma vi sono anche altri crimini di cui si riconoscono colpevoli, essenzialmente crimini a sfondo sessuale, come essersi accoppiate a diavoli, a demoni e di avere partecipato ai sabba. In genere le donne dichiarano di essersi lasciate convincere dalla promessa di un uomo che da quel momento in avanti le avrebbe fatte "stare bene".
La prima chiamata a confessare era stata Margherita Fornasari, accusata con la figlia Caterina di essere strega ed eretica da un certo Giacomo da Seregno, da poco messo al rogo in quel di Monza per eresia e stregoneria. Da questo episodio era partita l'inchiesta che aveva portato l'inquisizione ad interessarsi di Venegono, una frazione piccola e marginale. 

Margherita confessa subito tutto quanto le viene addebitato, con l'unica accortezza di non coinvolgere nessun'altra donna, né alcun altro uomo, ma il verbale del suo interrogatorio si chiude con la minaccia dell'Inquisitore, che le dà tempo ventiquattrore per pensare e confessare tutto, altrimenti minaccia di torturarla. Dai verbali degli altri interrogatori risulta che Margherita, da un certo punto in avanti, è morta. Come e perché non lo sappiamo, anche se è facile ipotizzare che sia morta sotto tortura. Dagli interrogatori veniamo anche a sapere che le "streghe" si servivano di un certo unguento, sempre lo stesso, che serviva sia per uccidere che per volare, e l'autrice dello studio si domanda come questo potesse accadere: "o le donne erano a conoscenza di antidoti che neutralizzavano il veleno contenuto nell'unguento e lasciavano agire solo la droga, oppure, come è più facile credersi, esse non uccidevano nessuno se non con la fantasia deformata dalle droghe che assorbivano attraverso le secrezioni vaginali.

Non sfugge all'attenzione dell'autrice come sia i sabba che gli incontri carnali con il diavolo fossero delle proiezioni evidenti di desideri che la realtà quotidiana della vita di queste contadine negava e reprimeva. E' questa un'osservazione che è già stata avanzata per altri processi alle streghe, ricorre ad esempio anche nel caso di Gostanza da Libbiano. Durante l'interrogatorio di Caterina Fornasari ad esempio traspare un bisogno di tenerezza e di dolcezza che è a suo modo toccante: richiesta dall'inquisitore se provasse piacere durante il coito con il demonio, e se tale piacere fosse simile a quello provato con suo marito, aveva risposto: "No, nell'atto vero e proprio provavo meno piacere di quanto ne provassi con mio marito, perché il membro di Martino non era né duro né rigido, come è quello di un vero corpo, e quando era nella vulva risultava freddo, mentre nei preliminari, negli abbracci, nei baci, nelle tenerezze e carezze d'ogni tipo, Martino mi procurava maggior piacere, perché lui mi dava l'illusione di prediligermi sinceramente e profondamente". Martino è il nome del diavolo seduttore che compare in tutto il processo, anche se a volte invece dichiara di chiamarsi Angelino.

Il sabba, che si svolgeva di norma una volta alla settimana, di solito il giovedì, era qualcosa che oggi - scrive l'autrice - sembrerebbe una scampagnata notturna, con finale in crescendo: "dopo aver mangiato, come esse ci raccontano, pane, carne di pollo e di maiale, e uova - che cocevano dentro caldaie durante la notte in mezzo alle radure - e aver bevuto del vino, il tutto portato da casa, esse ballavano e saltavano con i loro amanti, non trascurando di copulare". Però nei processi non troviamo traccia degli uomini che prendevano parte al sabba, nota la studiosa. Del resto, anche gli inquisitori erano convinti che fossero demoni, e pertanto sarebbe stato impossibile condannarli e sottoporli a un processo. "Non risulta che a qualcuno fosse mai venuto in mente che non di demoni si trattasse, bensì di uomini in carne ed ossa i quali altro non facevano se non spassarsela beatamente con delle donne pienamente convinte che fossero dei demoni" scrive la Marcaccioli Castiglioni, e si chiede "se mai uomo abbia avuto una copertura migliore di questa per sfuggire alle proprie responsabilità".
Perché le donne confessavano crimini che non avevano commesso? Certo per paura della tortura, e perché l'Inquisitore era prodigo di promesse di perdono e misericordia, qualora l'accusata avesse mostrato pentimento, confessando i suoi crimini. Nel Malleus Maleficarum vi sono istruzioni precise, anche se crude e ciniche, riguardo a queste promesse di perdono. I due autori, Heinrich Institor e Jakob Sprenger, a loro volta famosi inquisitori del secolo XV, si premurano di avvertire gli altri inquisitori che si può promettere perdono e clemenza, per carpire una confessione. Basta che, una volta ottenuta, l'inquisitore vincolato da questa promessa abbandoni il processo e al suo posto subentri un altro inquisitore, che non ne è vincolato. Così accade anche in questo processo, dove ad un certo punto a frate Battista da Pavia subentra l'inquisitore Michele d'Aragona. 

E' degna di nota in questo contesto una donna, Elisabetta Oleari, che si proclama innocente dall'inizio alla fine, resistendo alle torture più tremende, le vengono perfino praticati esorcismi, lei sopporta fino allo svenimento ogni genere di tortura, ma non confessa. Forse sperava di riuscire a cavarsela in questo modo, ma anche questo fu inutile, perché in ogni caso la colpevolezza di Elisabetta era già ampiamente provata, secondo gli inquisitori, dalle testimonianze delle altre donne. Andrà rilevata per finire la ricchezza e la varietà del percorso iconografico che arricchisce questo saggio, che include disegni di Albrecht Dürer e di Leonardo, di Goya e di pittori contemporanei, oltre alle fotografie dei luoghi citati nel corso del processo.
Vorrei concludere con una proposta provocatoria: alcuni passi degli atti del processo (in latino con testo a fronte) si prestano bene, secondo me, ad essere usati come versioni ad uso scolastico. Se si riuscisse a portare nelle aule un po' della complessità e della problematicità che emerge da questo genere di documentazione, forse anche la didattica del latino potrebbe ritrovare un nuovo senso.



RIEVOCAZIONE DEL PROCESSO ALLE STREGHE DI VENEGONO SUPERIORE


Con la bolla di Papa Giovanni XXII Super illius specula (Avignone, 1326) la magia cessa di essere una superstizione da tollerare e perdonare e diventa un fenomeno sociale che deve essere contrastato -un morbo pestilenziale da debellare- in quanto minaccia per la Chiesa. La lotta contro la stregoneria é affidata all’Inquisizione, un’istituzione ecclesiastica creata nella seconda metà del XII° sec. per indagare e punire, mediante un apposito tribunale, i sostenitori di teorie considerate contrarie all’ortodossia cattolica. Questo controllo si abbatterà con sempre maggiore brutalità sulla povera gente.

Il mito della strega nasce fin dagli albori del mondo. Nel medioevo, per convinzione o ignoranza, molte donne erano ancora legate alle vecchie credenze precristiane; il mito della strega resiste tra il popolo, così, le pratiche magiche relative alle antiche tradizioni pagane continuano a prosperare. Se il termine italiano strega deriva dal latino strix, un uccello notturno che si credeva di cattivo auspicio perché ritenuto nutrirsi di sangue e carne umana, la parola inglesewitch deriva invece da wicce che significa saggia, ed infatti, nella cultura pagana le streghe sono prevalentemente sciamane e consigliere (in Irlanda si diceva che se le streghe ballavano il Sabbah su un campo questo avrebbe avuto buon raccolto, in Italia che le messi sarebbero bruciate o marcite).

Anno 1484: Papa Innocenzo VIII dà ampi poteri ai frati Heinrich Kramer e Jakob Sprenger di svolgere incontrastati la loro opera di inquisitori; i due frati domenicani codificheranno le tecniche per la caccia alle streghe nel manuale intitolato Malleus Maleficarum (Il Martello delle Streghe): secondo gli autori, ci sono più streghe che stregoni: le donne sono più inclini a farsi irretire dal demonio perché deboli, psichicamente fragili, chiacchierone, vendicative e cadono presto nei dubbi sulla fede, la loro concupiscenza carnale è insaziabile per cui si uniscono ai demoni per soddisfare la loro libidine.

Il processo inquisitorio si basa sui pettegolezzi pubblici, sufficienti a condurre una persona al processo, nonostante le accuse siano spesso perpetrate per invidia; l’avvocato manca, perché una difesa efficace da parte del difensore è prova del fatto che egli stesso è “stregato” e dovrà pertanto essere a sua volta processato. La tortura è la normale tecnica di interrogatorio (si attenderà il XIX° sec. per vederla abolita in Europa, grazie al pensiero di Cesare Beccaria). La confessione viene estorta con la promessa di salvezza e, una volta ottenuta, considerata comunque prova di colpevolezza: “confessano solo per evitare la pena di morte”. Anche il processo alle streghe di Venegono viene celebrato con le regole del Malleus Maleficarum, fino al totale annientamento psicofisico delle sue vittime.

I verbali del processo, che si apre il 20 marzo 1520 nel castello del conte Fioramonte Castiglioni, per fatti accaduti a partire dal 1513, scoperti dalla ricercatrice Anna Marcaccioli Castiglioni, sono stati tradotti e pubblicati nel suo libro Streghe e roghi nel Ducato di Milano. Processi per stregoneria a Venegono Superiore nel 1520 (Thélema Edizioni, Milano, 2000).
La rievocazione del processo ci riporta all’epoca dell’inquisizione, cinquecento anni indietro nel tempo, a nomi e luoghi, alcuni dimenticati, altri invece che ancora oggi risuonano comuni: la chiesa di Santa Maria, la Silva Rupta dietro l’oratorio, il prato del Cattaneo, la sorgente del Fontanile, la Valle del Pascolo a est del castello, la Colombara attuale villa Caproni. Le imputate ci parlano di donne, famiglie e uomini di Venegono Superiore ed Inferiore, Vedano e Castiglione Olona, Monello, Binago, Appiano e Seregno, dove questa storia ha avuto inizio.
PERSONAGGI E INTERPRETI

Elisabetta Oleari (condannata al rogo)
MARIA LETIZIA FASOLA
Margherita Fornasari (condannata al rogo)
SARA MAGLIOCCA
Caterina Fornasari (condannata al rogo)
CARLA BERNARDINI
Antonina del Cilla (condannata al rogo)
HILARY BASSO
Maddalena del Merlo (condannata al rogo)
ELISABETTA MILANI
Majnetta “Codera” (condannata al rogo)
LISA IZZO
Giovannina Vanoni (condannata al rogo)
VERONICA MALETTA
Caterina d’Appiano (ostetrica)           
LALLA PIVATO
Tommasina (sospettata)
ELISA BAGAGIOLO
Battista da Pavia (primo inquisitore)
NINO GORIO
Michele d’Aragona (secondo inquisitore)
PAOLO GUFFANTI
Badono  Fornasari (condannato all’esilio)
PAOLO DELFINO
Fioramonte Castiglioni (signore del castello)
ENZO PANZERI
Aguzzino
GABRIELE CASTIGLIONI
Testimoni
MARIO MASPERO e SERGIO SPERONI
Giacomo da Seregno (delatore)
STEFANO MEDAGLIA                          








LA STREGA LUCIA DI AZZATE di Andrea Della Bella

Vorrei vedere voi. Vorrei vedere le vostre facce, come sarebbero i vostri occhi. I miei erano stralunati dalle torture e spalancati dall’orrore. Nonostante le bastonate mi abbiano devastato volto e lineamenti  e le palpebre, sfinite, lottavano per rimanere aperte. Non sentivo più dolore su questo mio corpo scavato da percosse inenarrabili, venduto alla morte e, dicono loro, alla salvezza dell’anima, per soli 30 denari.
Ma la mia è una storia vecchia, antica. Di quelle che non trovi sui libri di storia, ma che ha contribuito a rendere buio quel capitolo di vita su questa terra chiamato Inquisizione. Eppure ricordo la mia carne viva, scavata con arnesi che nemmeno un maiale al macello ha avuto la sfortuna di veder usati sul suo grasso corpo da immolare alle tavole di qualche nobil signore o prete crapulone. Ferri e uncini conficcati nella mia anima per cercare quel che non ho mai fatto, per carpire una verità che non c’era né dentro di me e tanto meno fuori di me.
Ma è bene che mi presento, perché di anni ne sono passati talmente tanti, che sarebbe meglio dire secoli. Anche se vedo che la mia fama aleggia di nuovo in tutta la Valbossa e su quel “diabolico” strumento che ai miei tempi nemmeno si poteva immaginare e che oggi chiamate rete, internet, facebook.
Mi presento, dicevo. Sono Lucia di Azzate, la strega. O meglio quella piccola donna che hanno accusato di essere adusa alla stregoneria. Nel 1588 hanno comprato il mio corpo per 30 ducati, infilati nella tasca di un boia venuto da Lugano e che nemmeno di uno sguardo ha degnato questa donna condannata al patibolo, nell’ultimo istante in cui la mia vita di sofferenza è stata liberata. Quello “stac” secco, della corda stretta attorno al mio collo, prima molle e poi tesa dal peso delle mie membra ormai sfibrate me lo son portato via con me. E non l’ho più dimenticato e nemmeno potuto raccontare. Mi son portato via il brivido, l’ultimo, che ha attraversato il mio corpo quando sotto i miei piedi non ho più trovato appoggio.
Ero bella, o almeno così pensavo, e non solo io. Ma non confondetemi con la Baitella. Sapete come siamo fatte noi donne: siamo permalose con chi non apprezza la nostra femminilità, figuriamoci con chi ci confonde con un’altra. Io sono Lucia, una delle tante donne arse vive o impiccate e ancor prima torturate nel nome di una fede che in realtà non vorrebbe violenza. L’unica donna, a memoria d’uomo, in tutta la Valbossa a pagare con la vita l’ostinata credenza di uomini che in me vedevano l’incarnazione e l’adorazione del male. Sulla terra mi hanno già giudicata e processata e ora son tornata, con questo scritto, non per giustificare la mia innocenza, ma per rimettere un po’ a posto le cose almeno a livello storico. Di falsità non ne ho mai raccontate. So che qualcuna invece, seppur innocente, ha dovuto raccontare delle balle per farsi credere e aver salva la vita. Ad altre la menzogna non è bastata. Tutte però abbiamo subito angherie incredibili, come è incredibile che gli uomini spesso credono più alle menzogne che a un cuore che supplica pietà. A voi che leggete queste mie ultime memorie non chiedo di scavare di nuovo nella mia storia, di riportare a galla ciò che la piena del tempo che scorre s’è portato via lasciando solo qualche vana traccia. Vi chiedo però di non confondermi con chi non sono. L’hanno già fatto altri strappandomi in maniera irreparabile gioia, anima e cuore. Voi risparmiatemelo.
                                                                                                                            
                                                     Lucia di Azzate




venerdì 21 febbraio 2014

Immagini di Azzate










                                                 Vittore Ghiringhelli detto "Ciod".







sabato 1 febbraio 2014

I Bossi di Azzate e il ramo di Bodio

Il ramo della famiglia Bossi di Bodio appartiene alla casata più titolata e famosa di Azzate. Quest’ultima risulta già ascritta nell’elenco delle nobili famiglie milanesi contenuto nella Matricola di Ottone Visconti (1377), nella quale, accanto ai Bossii domus domini Jacobi vengono citati anche i Bossii de Aciate.
L’origine del nome si fa risalire a tempi assai antichi: lo storico Donato Bossi nella sua Cronica della seconda metà del Quattrocento, lo affranca alla mitologia egizia, da cui deriva l’insegna araldica della famiglia costituita da un bue bianco su fondo rosso. I Bossi discenderebbero poi dai Bessi, popoli della Bulgaria sconfinati in Mesia, territorio che assunse grazie a loro il nome di Bosnia. (Valutazioni dedotte dai geografi Sebastiano Meniste, Antonio Bonfisio e Domenico Negri).
Di certo, furono invece vescovi di Milano Benigno Bossi (465-472), le cui ceneri sono conservate in una cassetta di piombo sotto l’altare maggiore della Basilica di S. Simpliciano di Milano, ed Ansperto Bossi (868-881), fondatore della Chiesa di S. Satiro, mentre Maffeo Bossi, intimo dell’imperatore Lotario III di Sassonia, fu nominato nel 1128 vicario generale della Lombardia e governatore di Lodi. La famiglia ottenne anche favori dall’imperatore Federico Barbarossa, accrescendo il prestigio ed il potere tanto che nel 1489, allorché il duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, volle concedere il feudo di Azzate e delle terre vicine a Gaspare Visconti, i nobili Bossi insorsero rifiutando di prestare giuramento di fedeltà dovuto al feudatario. La decisione ducale, infatti, era apparsa insolita ai Bossi “perché dicte terre sono piene de cittadini et zentilhomini, massime la terra de Aza’, dove sono più di cinquanta case de cittadini et nobili tutti de Bossi”. Secondo costoro i territori non avrebbero potuto essere concessi in feudo essendo sottoposti alla tutela e al controllo del Maggior Magistrato e quindi se il duca avesse voluto contraccambiarli coi servigi ottenuti dal Visconti, “il compiacea de altri lochi, dove ne possa havere più guadagno et obedientia, et lassare stare dicti nobili et abitatori in suo grado”.
La richiesta fu accordata tanto che la concessione feudale escludeva proprio la valle de Bozo, comprendente i territori di Gazzada, Buguggiate, Azzate, Brunello, Daverio, Crosio, Galliate e Bodio. Nel 1538 la Valle de Bozo, o val Bodia e più tardi Val Bossa, fu assegnata in feudo al senatore giureconsulto di Milano Egidio Bossi (risulta ritratto in una tela conservata nella Chiesa Parrocchiale di Azzate, dipinta nel 1542 da Callisto Piazza: Egidio ebbe due figli: Marco Antonio, ambasciatore milanese presso i Cantoni Svizzeri, e Francesco, vescovo di Novara), uno degli autori delle Novae Constitutiones, volute dall’imperatore Carlo V.
Nella Val Bossa è dunque documentata la presenza stanziale della casata che, dalla fine del Quattrocento, si è suddivisa in vari rami, ciascuno contraddistinto da varie residenze. Nel 1496, infatti, alcuni membri dei Bossi abitanti ad Azzate e Bodio, insieme ad alcuni componenti della famiglia Daverio, nominarono loro procuratori i signori Giorgio Rusca, Cristoforo Bossi, Giavan Pietro Bossi, cancelliere ducale, ed i fratelli Bertolini e Francesco Pagani per richiedere al Magistrato Straordinario di Milano il diritto esclusivo di pesca sul lago della Val Bodia detto di Gavirate.
Certamente alla metà del Cinquecento risiedeva a Bodio Bernardo, capostipite del ramo della famiglia Bossi proprietaria delle ville ora Gadola Beltrami e Corso.
La ricostruzione genealogica dei Bossi di Bodio è il risultato di una ricerca condotta originariamente forse da Don Cesare Ossola, parroco di Bodio. Le ricerche successive sono state continuate da Giancarlo Vettore e, ultimamente da Andrea Frigo, in occasione della pubblicazione di “Bodio Lomnago, Storia di una comunità tra lago e colli, Nicolini Editore, 2004”.
Da Bernardo discende Giovan Angelo, sposato con Marta Daverio, che fece testamento nel 1581.
Del figlio Galeazzo nulla è noto; ebbe un figlio Ulisse che, sposatosi con Elisabetta Ghiringhelli, morì dopo il 1621. Costui ebbe cinque figli, il primogenito Giovan Angelo (1593-1630) sposò Marta Daverio Cerrani da cui ebbe ben sette figli.
Gli discese Ulisse, nato nel 1638 e morto dopo il 1711, che sposò Anna Mara Daverio Pandolci, dalla quale ebbe cinque figli maschi.
Il primogenito Giovan Angelo, nacque nel 1677, morì nel 1760 e sposò Francesca Bossi fu Gerolamo. Da costei ebbe tre figli: Giovan Battista, Gerolamo (sacerdote) e Giuseppe.
Da Giovan Battista (1724-1784), sposato con Isabella Sessa, discese u ramo dei Bossi estintosi alla fine dell’ottocento, mentre dal primogenito Giuseppe (1719-1776) nacque Galeazzo (1754- ante 1809) che ebbe a sua volta due figli: Angiola e Giuseppe Carlo.
A costoro e agli zii è legata la divisione delle proprietà Bossi di Bodio del 1830, con l’assegnazione dell’attuale Casa Corso a Giuseppe Carlo e quella Gadola feltrami a Giovan Angelo.
Dalla discendenza di Giuseppe Carlo deriva l’ultima Bossi, donna Antonietta, morta nel 1999.
Nata l’11 novembre 1911, secondogenita di Giuseppe Bossi e Ida Garoni, rimase nubile come la sorella Maria Luigia, mentre il fratello primogenito Tebaldo non si sposò mai pur avendo avuto un figlio da una relazione extra coniugale. Dopo aver venduto molte proprietà di famiglia, Antonietta si era ritirata in una villa sul lago ad Oltrona dove conservava parte dell’archivio degli avi, oltre a quadri, fotografie e libri su Ricasso, per il quale aveva una passione sviscerata.
Ricordva con tenerezza il nonno Antonio che esercitava gratuitamente la professione di medico a Bodio, ricevendo qualche uovo o pollo e che aveva costruito una cappelletta sul porto lacuale del borgo per segnalare un approdo sicuro ai pescatori.
Particolarmente caro le era, inoltre, il cardinal Schuster il quale, durante una visita pastorale a Bodio, invitò la famiglia Bossi ad abbandonare la tribuna di loro proprietà nella chiesa parrocchiale di Bodio per unirsi alla popolazione nella celebrazione della messa. Ormai anziana, fu ricoverata a Villa Puricelli a Lomnago dove si spense poco prima nel nuovo millennio.