Giuseppe Bossi nasce a Busto Arsizio nella Parrocchia di S.
Giovanni in una casa di Santa Maria in Valle, come ricorda ancora oggi
un’epigrafe, l’11 agosto 1777 da un’antica famiglia bustese.
Egli appartiene al “felice momento lombardo del Foscolo, del
Parini, del Manzoni e del Porta”.
Saggiatore, pensatore, poeta ma soprattutto pittore.
Tra i disegni conservati spiccano Bacco e Arianna, La furia
di Edipo, Nove piccoli schizzi di vario soggetto, Il seppellimento delle ceneri
di Temistocle in terra Attica (1810/15).
Tra i dipinti ad olio un intenso Ritratto virile (1810) e Il
sacrificio di Lucrezia romana.
|
Giuseppe Bossi, autoritratto. |
Famiglia tra le più antiche ed illustri della città.
Esistono numerosi rami che probabilmente appartengono tutti ad uno stesso
ceppo.
Giovanni Alberto nato in Busto nella seconda metà del XVI
secolo, pregiato autore di componimenti poetici latini di cui si conservano
presso la Biblioteca
Ambrosiana, un manoscritto che contiene quattro libri in lode
di S. Michele, una raccolta di inni sacri e di altri carmi diretti ai suoi
amici Bustesi, un epitalamio (canto rivolto a Giovanni Galeazzo sesto duca di
Milano, nella ricorrenza delle nozze con Isabella), un’ode al primo conte di
Busto, un carme sulla bellezza del paesaggio circostante e sulla architettura
della Villa di Cusago eretta da Ludovico il Moro e una lettera a Basilio monaco
di Chiaravalle trattante argomenti teologici-morali. Scrisse infine un’operetta
sulla grammatica stampata nel 1609 a
Venezia.
Alcuni tra i Bossi si dedicarono al commercio della seta e
del cotone ed altri al lavoro della bambagia. In tale attività si distinse
Pietro Francesco che, nel 1776 era il primo tra i negozianti perché pagava la
tassa di lire 175, la più elevata pagata dai commercianti.
L’esponente più illustre di questa famiglia fu Giuseppe
Bossi nato nel 1777, stimato pittore e poeta paragonato al Parini. A 23 anni
venne nominato segretario dell’Accademia di Belle Arti di Brera, quindi
professore della scuola teorica di pittura. Nella propria abitazione accolse i
giovani che apprezzavano l’arte. Le sue opere sono numerose e molto stimate.
Le più conosciute sono la copia del Cenacolo di Leonardo Da
Vinci e il quadro dell’Edipo. I cartoni della scuola del Petrarca e della pace
di Costanza sono squisiti lavori di disegno, nel quale era molto più abile che
nel colore.
|
Giuseppe Bossi, copia dal vero dell'Ultima cena di Leonardo Da Vinci. |
Scrisse quattro libri intorno alla vita e alle opere
dell’autore del "Cenacolo", il "discorso sull’utilità politica
delle arti del disegno", un’epistola a Giuseppe Zanoia e le "vite dei
pittori milanesi". Morì nel 1815 alla giovane età di 38 anni. Il Canova
gli scolpì un’immagine, il Berchet lo celebrò in una epistola a Felice Bellotti
e il Porta lo pianse in un sonetto dal quale traspirava il vivo ed il profondo
cordoglio dell’amico.
IN QUESTA CASA
INSEGNO' PITTURA VISSE E MORI'
GIUSEPPE BOSSI
ARTISTA POETA LETTERATO INSIGNE
DALLE
OPERE DEI GRANDI MAESTRI
ATTINSE PRECETTI ED ESEMPI
TRASSE IMPULSO A NUOVE PREGIATE CREAZIONI
NACQUE A BUSTO ARSIZIO IL 11-VIII-1777
MORI' IL 9-XI-1815
La
segreteria di Giuseppe Bossi (1801-1807)
Al rientro a Milano di Napoleone dopo il breve
periodo austro-russo, nel giugno del 1800, la situazione è molto cambiata.
Anzitutto il gusto neoclassico, come si accennava all'inizio, è ormai orientato
verso l'antica Grecia con la tendenza ad un progressivo aumento dell'enfasi
retorica fino al culmine rappresentato dallo Stile Impero. Partito il Piermarini, l'architettura a Milano è
nelle mani del Cagnola (Arco delle Pace) e del Canonica (Arena), per la scultura
ci si riferisce a Canova (statua di Napoleone) e per la pittura all'Appiani
(Fasti di Napoleone nella Sala delle Cariatidi). Nessuno di loro insegna a
Brera, dove troviamo ancora il Franchi e il Traballesi, artisti ormai antiquati
rispetto alle nuove tendenze. La cattedra di architettura è occupata da Giacomo
Albertolli (fratello di Giocondo) aiutato da Carlo Amati, che resterà poi
indiscusso maestro fino alla metà del secolo.
La vera novità
di questa prima fase dell'epoca napoleonica è rappresentata dall'arrivo di un
giovane quasi sconosciuto a Milano: Giuseppe Bossi. Nato a Busto Arsizio nel
1777, dai 15 ai 18 anni aveva studiato pittura a Brera, poi era andato a Roma
dove aveva frequentato Antonio Canova conquistandosi la sua stima e amicizia.
Nel 1801 ritorna a Milano e ottiene grandi riconoscimenti con il grande quadro
(purtroppo distrutto nel 1943) intitolato "Riconoscenza della Cisalpina a
Napoleone". La sicura fede napoleonica, l'amicizia di Canova, il carattere
intraprendente del giovane convincono le autorità a nominarlo nuovo segretario
dell'Accademia al posto del Bianconi, ormai anziano e considerato di tendenze
antifrancesi. Giuseppe Bossi accetta il posto e divide il proprio stipendio con
l'ex segretario per i pochi mesi nei quali questo è ancora in vita (il Bianconi
muore il 15 agosto 1802).
Grazie al Bossi, l'Accademia vive questi anni come
un periodo di grande fervore di iniziative. Alla fine del 1801 Bossi va ai
Comizi di Lione dove viene elaborata la struttura della nuova Repubblica
Italiana, preludio al prossimo Regno d'Italia. Da Lione va a Parigi dove si
procura numerosi gessi per l'Accademia oltre a libri e incisioni per la futura
biblioteca (fino ad allora c'era soltanto la biblioteca personale del
Bianconi). Durante questo soggiorno il Bossi acquista anche per sé il Cristo morto del Mantegna, che i suoi
eredi lasceranno alla Pinacoteca nel 1824.
|
Andrea Mantegna, Compianto sul Cristo morto, 1490, Milano, Pinacoteca di Brera. |
Tornato da Parigi può quindi creare
la Biblioteca dell'Accademia (i
rapporti con
la Biblioteca
Nazionale non sono mai stati buoni!) e iniziare la lunga
guerra per la salvaguardia del patrimonio artistico che, con alterne vicende,
viene ancora oggi combattuta dalla Soprintendenza di Brera. Una delle prima
battaglie del Bossi è quella per l'acquisto dello
Sposalizio di Raffaello
che si troverà in quegli anni (1804-6) sulla via del mercato antiquario.
Un'altra battaglia (perduta) riguarda la demolizione dell'arco romano di
Castelvecchio a Verona.
|
Raffaello Sanzio, Sposalizio della Vergine, 1504,
Milano, Pinacoteca di Brera. |
L'anno 1803 segna la seconda nascita dell'Accademia.
L'1 settembre vengono approvati gli Statuti che assegnano il governo
dell'istituto a un Corpo Accademico di 30 membri tra docenti e artisti esterni
di chiara fama. Questo consiglio si riunisce una volta al mese eleggendo di
volta in volta il proprio presidente (ci sono dunque ancora residui di
democrazia diretta di stampo giacobino); l'unica carica costante è quella del
segretario. Le materie di insegnamento vengono ampliate in un programma più
ampio di formazione. Sono previste scuole di architettura, pittura, scultura,
prospettiva, ornato, elementi di figura, incisione e anatomia. Elementi di
figura, prospettiva e anatomia sono aggiunte per fornire una più completa
preparazione di base a tutti gli allievi. Gli insegnanti sono ancora gli stessi
del 1776. Si è aggiunto Domenico Aspari per insegnare Elementi di figura.
Rinnovata nello Statuto e nelle materie, comunque, l'Accademia viene riaperta
ufficialmente il 25 ottobre come "Accademia Nazionale".
Oltre all'insegnamento, gli statuti prevedevano per
l'Accademia un'altra importante attività, mirante a sprovincializzare la scuola
e a farla conoscere in tutta Europa: i Premi. Erano previsti premi di prima
classe destinati agli artisti europei che inviavano un loro elaborato
rispondente ai quesiti elaborati dalla commissione. Premi di seconda classe per
gli allievi delle Accademie. Tra il 1803 e il 1806 fervono i preparativi per il
bando e la successiva esposizione dei premi. Oltre alle opere presentate dai
concorrenti si pensa di allestire alcune sale con capolavori di pittura
provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi in questi anni. Si iniziano a
strappare gli affreschi da S. Maria della Pace, S. Marta, S. Maria di Brera
(prima il Foppa, poi gli altri).
Tavole e tele dal Quattrocento al Settecento
iniziano ad arrivare a Brera da Milano e da altre città del Regno d'Italia. Una
commissione guidata dall'Appiani decide se devono andare in Francia, restare
nella capitale Milano o essere smistate in altre città o Accademie per ragioni
didattiche o di prestigio. I preparativi per l'esposizione decide di collocare
queste opere al primo piano del cortile d'onore nelle sale situate lungo la via
Brera e la piazzetta che erano utilizzate come aule dell'Accademia. Di fronte
alle carenze di spazio si comincia a pensare ad un utilizzo della chiesa,
dividendola in due piani.
Nel 1805, morto Giacomo Albertolli, la cattedra di
architettura era passata allo Zanoja, mentre la cura del palazzo è assegnata a
Pietro Gilardoni, che seguirà tutte le modifiche di Brera nei prossimi
trent'anni. Il Gilardoni è incaricato di studiare la divisione della chiesa e
la realizzazione dei saloni superiori da adibire ad esposizione. Il Bossi
suggerisce di utilizzare la navata sud per creare un corridoio adibito a mostra
di disegni. Il 1806 segna il culmine della carriera del Bossi all'Accademia,
che pubblica in quest'anno le Notizie delle opere di disegno prima guida
ragionata della futura Pinacoteca.
Il clima politico sta però rapidamente cambiando, la
repubblica è diventata regno, Napoleone è diventato imperatore. Le istanze
democratiche e giacobine dei primi tempi sono ormai apertamente condannate.
Malgrado lo statuto, anche Brera deve adeguarsi al nuovo andamento delle cose e
accettare un presidente dotato di piena autorità. Giuseppe Bossi non accetta la
novità e dà immediatamente (gennaio 1807) le dimissioni, sostituito prontamente
dall'accomodante Zanoja, che pochi anni dopo accetterà altrettanto prontamente
di cantare gli elogi dei rientranti Asburgo. Da allora fino alla morte
prematura (9 dicembre 1815), Giuseppe Bossi si dedicherà agli studi
(soprattutto Leonardo e il Cenacolo), all'insegnamento nella scuola aperta
nella sua casa di via S. Maria Valle e alla pittura. Celebri di quest'ultimo
periodo della sua vita sono l'autoritratto di Brera e la Cameretta Portiana.
|
Napoleone Bonaparte nel cortile di Brera. |
Dalla presentazione fatta in occasione della mostra
allestita a Brera dall’11 giugno al 20 settembre 2009 dal titolo “Giuseppe
Bossi. Ritratti e autoritratti di artisti” traiamo queste notizie:
“La raccolta di ritratti e autoritratti di artisti - per la
prima volta compiutamente descritta dal segretario dell'Accademia di Brera e
promotore della Pinacoteca Giuseppe Bossi nella sua Notizia delle opere di
disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano, pubblicata nel
1806 - fu concepita, secondo la dichiarata intenzione del fondatore, quale
stimolo e incentivo ad una ricognizione storica sugli antichi maestri della
scuola milanese. Bossi la riteneva indispensabile anche e soprattutto in
relazione all'attività didattica svolta nell'Accademia di Brera. Infatti alle
effigi dei maestri antichi si affiancano alcuni ritratti e autoritratti dei
"maestri di Brera" suoi contemporanei e colleghi. Come accade di
consueto in Bossi, nella cui complessa personalità intellettuale si intrecciano
componenti di illuminismo e di romanticismo, nell'impresa convivono
strettamente passione civile, impegno didattico e scrupolo di ricerca storica.
Precoce è la sfortuna critica e
museografica occorsa alla raccolta di Bossi. Già nel catalogo della Pinacoteca
di Brera del 1816 il "Gabinetto" non è più registrato come nucleo
autonomo. Spesso dimenticati con funzione di arredo in depositi esterni presso
uffici pubblici, e solo ultimamente divenuti oggetto di studio e catalogazione
scientifica, i ritratti erano stati non di rado in passato vittime di
confusioni attributive e iconografiche.
Sono esposti 24 ritratti o autoritratti di
artisti del Gabinetto bossiano e per una migliore contestualizzazione un
Autoritratto di Giuseppe Bossi.
Sono stati appositamente
restaurati per la mostra, grazie al contributo di Pirelli e con la direzione di
Mariolina Olivari, dipinti di Pietro Francesco Gianoli, Salomone Adler e
Giuseppe Nuvolone. Il Ritratto di giovane donna (Allegoria della musica?) di
Simon Vouet è stato restaurato nel Laboratorio della Pinacoteca di Brera da
Sara Scatragli”.
Giuseppe Bossi.
Il Gabinetto dei ritratti dei pittori (1806)
a cura di Simonetta
Coppa e Mariolina Olivari
11 giugno – 20
settembre 2009
La raccolta di ritratti e
autoritratti di artisti - per la prima volta compiutamente descritta dal
segretario dell’Accademia di Brera e promotore della Pinacoteca Giuseppe Bossi
nella sua Notizia delle opere di disegno pubblicamente esposte nella Reale
Accademia di Milano, pubblicata nel 1806 - fu concepita, secondo la
dichiarata intenzione del fondatore, quale stimolo e incentivo ad una
ricognizione storica sugli antichi maestri della scuola milanese. Bossi la
riteneva indispensabile anche e soprattutto in relazione all’attività didattica
svolta nell’Accademia di Brera. Infatti alle effigi dei maestri antichi si
affiancano alcuni ritratti e autoritratti dei “maestri di Brera” suoi
contemporanei e colleghi. Come accade di consueto in Bossi, nella cui complessa
personalità intellettuale si intrecciano componenti di illuminismo e di
romanticismo, nell’impresa convivono strettamente passione civile, impegno
didattico e scrupolo di ricerca storica. Alla luce di questo presupposto, si
spiega la caratterizzazione prevalentemente lombarda della raccolta. Dei 34
ritratti o autoritratti che componevano il “Gabinetto” bossiano, ben 25, se ci
si attiene alle attribuzioni e alle identificazioni iconografiche del fondatore
- non sempre condivise dalla storiografia moderna - raffigurano maestri
lombardi o loro familiari.
Precedente importante del
gabinetto bossiano fu il “Museo milanese” di Francesco Antonio Albuzzi,
segretario dell’Accademia di Brera prima di lui. Il “Museo Milanese”, datato
1775, era un album di 43 disegni al tratto raffiguranti “ritratti di pittori
scultori e architetti milanesi”, accompagnati da indicazioni sulla collezione
di appartenenza dei dipinti da cui erano stati “cavati” i disegni. Per una
parte non indifferente si trattava di opere appartenenti a collezioni storiche
lombarde (d’Adda, Litta, Arese, Trivulzio, Archinto); in misura maggiore erano
presenti opere dell’Accademia Ambrosiana, titolare di una raccolta più antica
ma per molti aspetti parallela di quella bossiana.
Precoce è
la sfortuna critica e museografica occorsa alla raccolta di Bossi. Già nel
catalogo della Pinacoteca di Brera del 1816 il “Gabinetto” non è più registrato
come nucleo autonomo. Spesso dimenticati con funzione di arredo in depositi
esterni presso uffici pubblici, e solo ultimamente divenuti oggetto di studio e
catalogazione scientifica, i ritratti erano stati non di rado in passato
vittime di confusioni attributive e iconografiche.
La mostra è a cura di Simonetta Coppa e
Mariolina Olivari; si deve l’allestimento all’architetto Corrado Anselmi.
Sono esposti 24 ritratti o
autoritratti di artisti del Gabinetto bossiano e per una migliore
contestualizzazione un Autoritratto di Giuseppe Bossi.
Sono stati appositamente
restaurati per la mostra, grazie al contributo di Pirelli e con la direzione di
Mariolina Olivari, dipinti di Pietro Francesco Gianoli, Salomone Adler e
Giuseppe Nuvolone. Il Ritratto di giovane donna (Allegoria della
musica ?) di Simon Vouet è stato restaurato nel Laboratorio della
Pinacoteca di Brera da Sara Scatragli.
Il catalogo comprende saggi di
Simonetta Coppa (Gli Accademici Ambrosiani, il Museo Milanese di Francesco
Albuzzi, il “Gabinetto dei ritratti dei pittori” di Giuseppe Bossi. Raccolte
iconografiche di artisti a Milano: tracce per una storia), di Francesca
Valli (Giuseppe Bossi, segretario di Brera) e di Daniele Pescarmona su
una seconda versione del celebre Ritratto della famiglia del pittore di
Carlo Francesco Nuvolone, gemma del “Gabinetto” bossiano dallo studioso
rintracciata presso l’Azienda Sanitaria Locale di Como (“Dei diversi
Nuvolone”: una seconda versione del Ritratto di famiglia in concerto), la
trascrizione del testo di Bossi sul “Gabinetto” edito nel 1806 entro la sua Notizia
delle opere di disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano,
infine le biografie degli artisti (autori e ritrattati) a cura di Eugenia
Bianchi.
Tra i più significativi ritrovamenti avvenuti in occasione
della catalogazione e della mostra, sono da segnalare l’autoritratto di Carlo
Francesco Nuvolone con la famiglia, ritrovato da Daniele Pescarmona negli
uffici dell’Asl di Como (si tratta della variante di bottega di una delle opere
più note e discusse del pittore cremonese oggi a Brera).
Letterato e pittore riputatissimo, nato a Busto Arsizio l’11
agosto 1777, nella prima sua giovinezza trattò la poesia, poscia attese alle
arti del disegno, ed in Roma stette 6 anni studiando le opere dei grandi
maestri: provveduto di molto sapere, e di privato censo, raccolse una preziosa
collezione di libri, di disegni, ed altre cose, che divenne meravigliosa a
chiunque la vide, e fu stimata degna poi di aggiungere ornamento all’Accademia
delle Belle Arti di Venezia.
Tornato in patria, lasciando in dubbio chiunque lo conosceva
se in lui più fosse grande la scienza o l’arte, fu posto al governo
dell’Accademia milanese, che molto incremento e decoro ebbe dalle sue
infaticabili cure. Tornato appena da Roma aveva ottenuto il premio nel concorso
per un gran quadro allegorico. Dato sesto alle cose dell’Accademia, volle
tornare in Roma a fare altri studi sulle opere di Michelangelo, e quando si
ridusse nuovamente a Milano, il viceré principe Eugenio, gli allogò un’opera
che tornava in grande onore all’artista eletto non meno a che lo eleggeva: fu
questa la copia del Cenacolo di
Leonardo da Vinci, per essere poi trasportata in mosaico. Su quest’opera il
Bossi fece dottissimi studi e li consegnò in un grosso volume pieno di
peregrina erudizione e di sana critica. Tirati sempre dal naturale istinti
dell’utile altrui, aperse la sua casa a scuola di pittura ammaestrandovi i
giovani nella dottrina dell’arte, e nella maniera del comporre, parti certo le
più sublimi e più degne; logorato però dall’assidue fatiche, morì quando l’età
e la fama in lui meglio fiorivano, nel 1815, di soli anni 38.
Solenni esequie, un elogio funebre, un busto rizzatogli in
Brera, furono gli onori debitamente resi a questo insigne artista.
(Estratto dal “Dizionario Biografico Universale).
Nato a Busto nel 1777, fu poeta in lingua e vernacolo,
erudito, bibliofilo: qualche sua nota poesia ispirò famose strofe del Porta.
Fu pittore neoclassico, di non molta ispirazione. Gli si
deve una apprezzata copia del Cenacolo vinciano,
sul quale scrisse anche un’opera di grande erudizione, attraverso la quale
conobbe il celebre affresco di Leonardo.
Il Bossi ebbe notevolissima parte nella vita culturale
milanese del primo Ottocento e fu in relazione coi maggiori letterati
dell’epoca, fra cui il Manzoni, il Monti ed il Foscolo.
Fu segretario dell’Accademia di Brera che fece rifiorire ed
arricchì di statue e di calci che poté avere col favore di Napoleone.
Fu fondatore con Andrea Appiani della celebre Pinacoteca di
Brera di Milano.
Morì a Milano il 7 settembre 1815 nel compianto degli amici,
tra i quali il Canova che il Bossi più volte ospitò nella sua casa di Milano e
che scolpì, si dice, piangendo un suo busto che si trova ora sugli scaloni
della Biblioteca Ambrosiana.
Se come artista fu neo-classico, nell’animo era un
romantico: basterebbero a dimostrarlo questi due suoi versi in cui reclama per
sé:
“Licenza de podé scriv e descor
Quel che se gha in del coeur senza pommpomm”.
Anche il Porta, che al Bossi deve l’ispirazione della sua
“Ninetta del Verzée”, ne pianse la morte. In una poesia vernacola del tempo
così lo si esalta:
“Giusepp Boss
Quel coloss
L’è mort a trent’ott’ann
Già grand fra tutti i Grand
Vivend anch mò
vint’ann
El sariss staa
‘lpu Grand
“Enciclop” de la
lista
Che gloria i « vottcentista ! »
ERBA (Como)
… Si sale alla Villa Amalia (visita a richiesta
all’Amministrazione Provinciale), sorta su un convento di Riformati del 1488 e
trasformata da Leopoldo Pollack dal 1799
in chiave neoclassica, con atrio tetrastilo ionico, per
Rocco Marliani, che vi ospitò Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, negli ambienti
interni, pitture di Giuseppe Bossi (circa 1805) e decori e arredi di Luigi
Scrosati.
Dall'ingresso si passa nella sala Impero, detta anche
"salone della Aurora": e' l'unico ambiente pressoche' intatto dell'
arredamento originale; da' nome alla sala la famosa "Aurora", tela
dipinta da Giuseppe Bossi e incastonata sul soffitto in luogo del tradizionale
affresco. Dal salone dell'Aurora si diramano a destra i salotti giallo, rosso e
il salottino d'angolo di gusto orientaleggiante, a sinistra la sala di lettura
e la sala da pranzo. Sempre dal salone dell'Aurora si accede al parco, ricco di
pregiate essenze arbore, dal quale e' possibile ammirare la facciata con
pronao, che e' l'elemento piu' suggestivo dell'intera villa.
BELLAGIO (Como)
I giardini di Villa Melzi (visita:marzo-ottobre ore
9-18.30), disposti a Sud dell’abitato tra la strada costiera per Como e il
lago, sono stati creati con notevoli opere di modifica del terreno e con la
realizzazione di imponenti muri di sostegno; si articolano in varie parti
dotate di caratteri distinti e adorne di diverse sculture antiche. A sinistra
dell’ingresso, nella grotta, urna cineraria estrusca del III sec. A.C.,
proveniente dai sepolcri degli Scipioni a Roma; più avanti, presso il laghetto
delle Ninfee, due sculture egizie della XVIII e XIX dinastia (XIV e XIII a.C.)
raffiguranti la dea-leonessa Kekhmet in balsalto e una statua-cubo.
Un giardinetto giapponese, il monumento a dante e Beatrice di
G.B. Comolli e la scalinata delle Azalee anticipano la Villa
Melzi, bella dimora neoclassica preceduta da una vasta
terrazza semicircolare (ornata dalle statue di Meleagro e di Apollo di
Guglielmo della Porta) comunicante con il lago attraverso un sistema di scale.
Costruita nel 1808-10, su disegno di Giacomo Albertolli, per Francesco Melzi
d’Eril, vicepresidente della Repubblica Cisalpina, è oggi proprietà dei
Gallarati-Scotti. L’interno (non visitabile) è impreziosito da affreschi,
raccolte di quadri, sculture e arredi; al primo piano la volta del salone
d’onore è decorata da dipinti di Giuseppe
Bossi, e le pareti da stucchi su disegni dell’Albertolli; nella biblioteca,
decorazioni a soggetti mitologici di Andrea Appiani e di Giuseppe Bossi.
L’esponente più illustre di questa famiglia fu Giuseppe
Bossi nato nel 1777, stimato pittore e poeta paragonato al Parini. A 23 anni
venne nominato segretario dell’Accademia di belle Arti di Brera, quindi
professore della scuola teorica di pittura. Nella propria abitazione accolse i
giovani che apprezzavano l’arte. Le sue opere sono numerose e molto stimate. Le
più conosciute sono la copia del Cenacolo
di Leonardo Da Vinci e il quadro dell’Edipo. I cartoni della scuola del
Petrarca e della pace di Costanza sono squisiti lavori di disegno, nel quale
era molto più abile che nel colore.
Scrisse quattro libri intorno alla vita e alle opere
dell’autore del Cenacolo, il
“Discorso sull’utilità politica delle arti del disegno”, un’epistola a Giuseppe
Zanoia e le “Vite dei pittori milanesi”.
Morì nel 1815 alla giovine età di 38 anni. Il Canova gli
scolpì un’immagine, il Berchet lo celebrò in una epistola a Felice Bellotti e
il Porta lo pianse in un sonetto dal quale traspira il vivo ed il profondo
cordoglio dell’amico.
CONTRO
IL PITTORE GIUSEPPE BOSSI di Ugo Foscolo.
Se come fredde son le tue pitture
Fosser le tue censure,
O come calde son le tue censure
Fosser le tue pitture,
Saresti buon censore,
E forse buon pittore.
|
Ugo Foscolo. |
La pinacoteca (sull'omonima via
Brera, nell'edificio completato dal 1774 da Giuseppe Piermarini, l'architetto
neoclassico della Scala), nacque come "collezione di opere esemplari"
con finalità didattiche. Era destinata agli studenti, a fianco dell'Accademia
di Belle Arti, voluta nel 1776 da Maria Teresa d'Austria insieme ad altri
istituti culturali. Il primo serbatoio di opere fu quello dei dipinti delle
chiese e conventi soppressi in Lombardia, ma il vero colpo d'ali fu la
decisione di Napoleone, conquistatore d'Italia, di farne, come il Louvre, il
"museo imperiale" di quella che nel 1805 era diventata la capitale
del regno. Come tale doveva presentare i dipinti più importanti delle chiese e
conventi delle regioni "liberate": Emilia-Romagna, Marche, Umbria,
Veneto. Anche smembrando i complessi come il "Polittico di valle
Romita" di Gentile da Fabriano. La pinacoteca non ha quindi alle spalle le
collezioni dei principi rinascimentali, delle grandi famiglie, dei mecenati, ma
le razzie dello Stato. Questo "spiega la prevalenza dei dipinti sacri,
spesso di grande formato e conferisce al museo una fisionomia particolare, solo
in parte attenuata dalle successive acquisizioni". Condotte soprattutto da
Giuseppe Bossi (dal 1801 al 1807 segretario dell'accademia) e in parte da
Andrea Appiani, pittore ufficiale di Napoleone.
Rientrato a
Milano,
nel
1801 fu
nominato segretario dell'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel
1802 compì un viaggio a
Parigi insieme all'incisore monzese
Giuseppe Longhi
e vi frequentò l'ambiente artistico. Tornato in Italia, nel
1803 curò la redazione del
nuovo
Statuto di Brera introducendo
sostanziali riforme e novità nell'insegnamento accademico e portando in breve
questo istituto ad avere un ruolo preminente nella determinazione del gusto del
tempo in Italia settentrionale.
Con lo stesso
Statuto fu dato grande impulso alla
Pinacoteca di Brera, che venne dotata del suo
primo nucleo di opere. Ricoprì tale incarico fino al
1807 anno in cui, con sua
grande amarezza, rassegnò le dimissioni.
Ed è proprio dal
1807
che Bossi inizia a scrivere le sue
Memorie sotto forma di diario della
propria vita, attività che sospenderà soltanto pochi giorni prima di morire nel
1815.
|
Busto a Giuseppe Bossi nel Palazzo di Brera. |
QUI C'E' UNA STORIA LUNGA SEI SECOLI
Il pittore Giulio Durini
di Monza vive nel palazzo che ospitò anche Giuseppe Bossi e Antonio Canova
Quelli dipinti, che t’inseguono con lo sguardo, appesi alle pareti e
appoggiati in ogni dove, quelli scolpiti, in biancogesso o nerobronzo che sia,
quelli riflessi negli specchi argentati delle porte e quelli degli spiriti che
aleggiano nell’aria (qui abitarono Giuseppe Bossi e Antonio Canova, e uno
srotolarsi d’ospiti e antenati, in una fiumana lunga sei secoli): tutti insieme,
questi occhi ti osservano mentre giri fra le sale.
FOTO La casa in cui
abitò Canova
Siamo nelle stanze private del conte di Monza
e principe di Fabbrica, ritrattista ufficiale dello Stato e presidente della
Fondazione Durini, il pittore Giulio Durini. Un raffinato guscio color calce,
quello delle pareti con pigmenti naturali, insegue le nuances di un pavimento
di cemento e colla: «Mi piacciono i colori sporchi, alla Tiziano, solo seta e
damasco sono belli in ogni versione. Comunque il troppo pieno, tappeti, tessuti
sulle pareti… non lo concepisco più, volevo creare un contrasto».
Così neutro, più contemporaneo che mai, il monocromo calcecemento accoglie
secoli di storia, in senso tecnico. Del Quattrocento l’edificio, del
Cinquecento il letto dorato in cui riposa il conte, del Seicento la maggior
parte di quadri e sedie, il baule da viaggio e il tavolo da lavoro/pranzo, del
Settecento le porte in specchio argentato, dell’Ottocento letti con baldacchino
e busti in bronzo, del Novecento? «Forse i divani. E i libri. Comunque non so,
Novecento e 2000 li confondo».
Non dobbiamo farci confondere noi, da questa risposta, sintesi dell’odierno
Durini di Monza, pittore dall’anima divisa in due, come il suo abitare. Da un
lato, intrisa di storia, cresciuta nella casa rigurgitante d’antenati, c’è
l’anima del bambino che a soli quattro anni sfogliava la Guida al mobile antico per prendere sonno. Dall’altra, quella
di Giulio con casa a San Paolo, che per mesi fugge nel mondo più nuovo e più
giovane possibile, per ripartire da zero, privo di passato. Sono i suoi quadri,
già intimisti e d’estetica seicentesca, soggetti ritratti in interni in tinta polvere
in compagnia della propria ombra, quei nudi ora invece usciti all’aria aperta,
inondati del sole delle spiagge tropicali, a raccontarci di lui, più di ogni
altra cosa: «I corpi in primo piano sono ancora baroccheggianti nella
composizione, e all’interno nessuno si parla, non c’è comunicazione. In realtà,
continuo a lavorare sulla solitudine».
Bizzarro complesso, da sviluppare in un luogo così affollato, basti l’attuale
viavai di gente legato alla Fondazione… «In questa casa non c’è mai stato
niente di definitivo, tutto si sposta, entra, esce, viene restaurato.. ho
sempre avuto la sensazione di abitare in un deposito. Passo le giornate fra due
stanze, lo studio e gli uffici della Fondazione: la vivo come un centro
operativo, più che come una casa». Solitudine come punto fermo, nello scorrere
di secoli interi, intorno a lui.
Troneggia un computer sopra il tavolo barocco, sfidano i confini del dandismo
sedie e luci tutte diverse tra loro, sfilano i busti dei Durini in un salone
che miscela il bello e nutre i contrasti. A partire dall’astratto contenitore,
incolore come certe tele antiche, che ospita arredi che hanno visto passare
principesse, regine, sovrani e zar, e poi i marmi del Bambaia ora al Castello
Sforzesco, i reperti archeologici ora nel Museo di corso Magenta, il Cristo del
Mantegna ora a Brera, i disegni di Leonardo ora all’Ambrosiana.
Molto si concentrava nel salone con soffitti 1740, quello in cui ci si trova
ora mentre il pittore racconta, e confessa: «Tutto questo pieno crea
responsabilità, e tutto sommato pesa». Soprattutto sulla sua vena ultramoderna,
scatenata nella stanza accanto, quella in cui dipinge, su parquet d’impatto
industriale e sotto luci al neon. Vena che asseconda fuggendo dall’altra parte
del mondo, nel vuoto della casa di San Paolo, muri bianchi e un materasso per
terra come alternativa al barocco delle notti milanesi. Che effetto fa questa
doppia vita? «Ogni volta che mi sposto è uno shock, e dura almeno una
settimana”. Il classico jet lag, qui di genere culturale: a confondere l’anima,
più che l’ora dei pasti.
Quando sul finire del 1807
Giuseppe Bossi inizia a tenere un diario della propria vita, che interromperà
solo a pochi giorni dalla morte nel 1815, ha da poco compiuto i trent'anni, ma è già molto forte la
coscienza che ha di sè; e del proprio ruolo di artista, in una Milano capitale
del Regno d'Italia e pervasa dall'ideologia napoleonica. Dopo i primi
insegnamenti appresi nelle aule dell'Accademia di Belle Arti di Brera, una
borsa di studio a Roma gli aveva permesso di avvicinare dal vero i grandi
modelli della pittura rinascimentale e della statuaria classica, e di
frequentare quella fucina del neoclassicismo internazionale che furono gli
studi di Antonio Canova, Felice Giani, Angelika Kauffmann.
|
Disegno del busto di Giuseppe Bossi. |
PER LA MORT DEL BRAVISSEM PITTOR E LETTERATO GIUSEPPE BOSSI
(1815) di Carlo Porta.
L’è morte el pittor Boss! Esus per
lu!
Selammen, e passen, i fedel cristian;
I pretocch vicciuritt freghen i man,
E disen:
Mej! On candirott de pu.
Quij del mestee, ch’el veden in di
pu,
Goden de vess tant manch intorna al pan;
I ricch ozios ghe dan del barbagian
A vèsses bolgiraa per la virtù.
I malign, che hin pu spess che i
galantomm,
O de riff o de raff, o indrizz o stort,
Cerehen, se ponn, de spiscinigh el nomm;
E mi, per consolamm, del mè magon,
Ghe dighi a sto grand’omm che, se lè mort,
L’è puranch foeura d’on grand mond cojon.
|
Giuseppe Bossi, ritratto di Felice Bellotti. |
|
Giuseppe Bossi, Saffo canta in casa di Eutichio. |
|
Giuseppe Bossi, sepoltura delle ceneri di Temistocle. |
|
Giuseppe Bossi, storie di Saffo.
|
|
Giuseppe Bossi, Giove sotto le sembianze di Diana che seduce Callisto (1810). |
|
Giuseppe Bossi, Edipo a Colono. |
|
Giuseppe Bossi, profilo di testa femminile. |
|
Giuseppe Bossi, ritratto del pittore Gaspare Landi. |
|
Giuseppe Bossi, ritratto del pittore Giusepe Landi.
|
RICONOSCENZA DELLA CISALPINA A NAPOLEONE
|
Milano, Accademia di Belle Arti di Brera, Giuseppe Bossi, Riconoscenza
della Cisalpina a Napoleone (1802).
Con questo quadro Giuseppe Bossi partecipò ad un concorso
bandito dalla Repubblica Cisalpina, riuscendone vincitore
il 15 maggio 1802.
Ecco come vengono rappresentati i personaggi:
-
Napoleone vincitore come un imperatore romano;-
La Storia come la Vittoria;
- L’Italia come un fanciulla liberata;
-
Il Progresso come l’Abbondanza con cornucopia;
-
La Pace come un amorino con le armi di Marte;
-
La Sorte come Venere prigioniera;
-
La Forza come Ercole con la clava;
-
La Sapienza come Minerva con l’elmo.
Nel 1800, dopo il passaggio dalle Alpi al Gran San Bernardo e la strepitosa
vittoria di Marengo, Napoleone Bonaparte e l'esercito francese liberavano per
la seconda volta (la prima era avvenuto nel 1796) l'Italia. Una liberazione che
da molti venne considerata una conquista. La ristabilita Repubblica Cisalpina
si trasformò, il 26 gennaio del 1802, dopo la sanzione dei Comizi di Lione, in
Repubblica Italiana, unica forma di Stato che fino alla seconda guerra mondiale
ha portato questo nome. Questa prima forma unitaria data alla nostra nazione,
in realtà , non comprendeva che una parte dell'Italia settentrionale, e
cioè il territorio della Lombardia e parte dell'Emilia. Essa ebbe una vita
davvero effimera, travolta nel 1805 dalla nascita dell'impero napoleonico, per
cui la Repubblica divenne il Regno d'Italia (1805-1814), dopo che Napoleone,
sceso nuovamente a Milano, si incoronò in Duomo con la mitica Corona Ferrea dei
Re d'Italia.
Giuseppe Bossi, uomo geniale e di enorme fascino, verrà riscoperto come
l'artista più rappresentativo di questa Repubblica Cisalpina, della quale
seppe, meglio di tutti gli altri, rappresentarne gli ideali. Vincitore del
concorso bandito nel 1802 dall'Accademia di Brera per un enorme dipinto
dedicato a La Riconoscenza della Cisalpina a Napoleone, egli vi creò la prima
moderna versione della rappresentazione dell'Italia, in una figura di
straordinario fascino che, ripresa dallo stesso Canova, diventerà la base
della moderna iconografia della nostra nazione. Accanto a questo quadro, che si
credeva perduto ed è stato ritrovato solo da pochi anni, saranno presentati
altri capolavori di Giuseppe Bossi, tra cui un ritratto inedito di Napoleone.
Ma la sensazionale novità della mostra sarà la presentazione, dopo
un impegnativo restauro, di un immenso dipinto, sempre di Bossi, di cui si
erano perse le tracce e che ricompare ora, dopo 200 anni, proprio in questa
occasione e dopo un impegnativo restauro: ispirata all'Edipo a Colono, tragedia
di Sofocle, quest'opera bellissima interpreta in modo esemplare gli ideali del
sublime propri dell'arte neoclassica e si rivela come un capolavoro assoluto
della pittura in Europa in quegli anni.
La tela, importante esempio di arte neoclassica, venne realizzata in un clima
di entusistica promozione delle arti seguita al rafforzamento del potere
napoleonico a Milano. Nel 1801 venne indetto un bando pubblicato ne "Il
redattore Cisalpino" per un dipinto che rappresentasse la Riconoscenza
verso Napoleone da destinarsi al Foro Bonaparte da presentarsi entro il 5 maggio,
poi 15 giugno, 1802. La commissione composta da Traballesi, Knoller, Appiani,
Cicognara, Mussi e Calvi, premiò l'ultima opera presentata a concorso, quella
del Bossi per l'appunto, che venne successivamente destinata al Palazzo
Nazionale. Benchè la commissione avesse delle riserve sul disegno e
"sull'espressione del gruppo", venne però giudicata positiva per la
composizione; la complessa interpretazione del dipinto fece sì che il Bossi,
all'indomani della premiazione, inviasse una lettera alla commissione in cui
esplicitava chiaramente il significato delle allegorie. A testimonianza degli
studi del Bossi per comporre l'opera, rimane una serie di materiali
preparatori: il cartone, molto vicino alla redazione finale, due disegni, uno
schizzo a penna, uno a matita ed un piccolo bozzetto ad olio di incerta
attribuzione. per quanto riguarda l'iconografia, il Bossi pare riprendere un
grande disegno di Wicar del 1795, L'allegoria del trattato di Pace tra la
Convenzione eil Gran Duca di Toscana, oltre agli evidenti richiami alla
tradizione classica e rinascimentale italiana. L'opera, il cui fulcro è nelle
riuscitissime figure di Napoleone e delle Riconoscenza, per la cadenza
compositiva da bassorilevo antico, il rigoroso rilievo statuario delle figure e
i colori campiti, rimandano ad un clima primitivista, con cui l'artista
probabilmente venne a contatto negli anni della formazione romana e che ebbe il
suo apice con la visita, nel 1802, allo studio di David a Parigi.
Milano, Pinacoteca Ambrosiana, Giuseppe Bossi, Edipo a Colono.
BOSSI GIUSEPPE di Sergio Samek
Ludovici
Figlio di Francesco
Antonio e Teresa Bellinzaghi, nacque a Busto Arsizio l'11 Fagosto 1777; ricevette
la sua prima educazione nel Collegio dei Somaschi di Merate. Si distinse ben
presto, tanto che i suoi componimenti poetici, secondo l'uso del tempo, gli
valsero l'ingresso in Arcadia a 15 anni (22 giugno 1792) come arcade (col nome
di Alcindo) e successivamente come pastore. La famiglia secondò le sue precoci
inclinazioni per la pittura iscrivendolo all’Accademia di Brera istituita nel
1786. Là ebbe maestri Traballesi, Knoller, Appiani e G. Franchi, con qualche
insoddisfazione, a detta del suo primo biografo e amico, Gaetano Cattaneo.
Nell'autunno 1795 scendeva a Roma in un momento di particolare fervore della
poetica neoclassica, stringendo rapporti con d'Agincourt, R. Cunich, G. G. de
Rossi, Angelica Kauffmann e Marianna Dionigi. Fu in amicizia con F. Giani e con
il Canova, per il quale ultimo nutrì una devozione ammirata che durò sino alla
morte (oltre alle lettere, cfr. E. Bassi, La gipsoteca di Possagno, Venezia 1957,
ad Indicem).
Al Museo Pio-Clementino il Bossi
copiò da statue antiche e frammenti, ma rivolse altresì la sua attenzione a Raffaello
(di cui riprodusse la Disputa), e soprattutto al Michelangelo della Capella Sistina.
Le esercitazioni sui nudi di Michelangelo e l'insegnamento del pittore
mantovano D. Conti lo invogliarono a ricerche anatomiche dal vero, che il Bossi
potè effettuare all'Ospedale della Consolazione. Sono di questo periodo le
sanguigne a grandezza naturale delle varie parti del corpo umano (conservate
nella raccolta Bertarelli di Milano), che vennero pubblicate postume (1840: Tavole anatomiche...
).
Tornato a Milano, nel 1801 finì
il cartone dell'Edipo
re (Ambrosiana) e partecipò a un concorso bandito dalla Cisalpina
(28 marzo 1801) per un quadro dal tema: la Riconoscenza della Cisalpina a Napoleone,
riuscendone vincitore (15 maggio 1802; cartone all'Ambrosiana; per il bozzetto
cfr. G. Nicodemi, in L'Arte, LXI [1962], pp. 185 s.; il quadro, a Brera
[Accademia], è andato distrutto durante la seconda guerra mondiale). Nello
stesso anno (1801) il governo gli affidò la carica di segretario
dell'Accademia, in sostituzione di Carlo Bianconi, giubilato perché di
sentimenti antifrancesi (con il quale, tuttavia, il B. divise generosamente lo
stipendio).
Il piano di riforma
dell'Accademia da lui subito preparato si modellava su quello dell'Accademia di
S. Luca di Roma, ma mirava anche a fornire all'istituto direttive unitarie
capaci di disciplinare, secondo un vasto disegno etico-civile, il frastagliato
mondo degli artisti, realizzando un'idea che era stata già del Parini. Inviato
ai Comizi di Lione insieme con G. Longhi, B. Oriani e P. Brambilla come
rappresentante dell'Accademia, il B. tuttavia non vi svolse parte attiva (I Comizi nazionali in
Lione, a cura di U. Da Como, III, 2, Bologna 1940, pp. 23 s.). Da
Lione nell'estate del 1802 andò a Parigi dove, in contatto con gli ambienti
artistici, conobbe David, Girodet-Trioson, F. Gérard. Ricevuto in udienza dal
primo console, sollecitò e ottenne aiuti per l'Accademia di Milano (fu emesso
tra l'altro un decreto per cui l'amministrazione del Museo centrale di Parigi
avrebbe dovuto fornire all'Accademia di Milano i calchi dei capolavori di
scultura antica). Un diario del suo soggiorno in Francia, interessante per la
vita privata di Napoleone e del suo entourage, è perduto (visto da G.
Cattaneo).
Ritornato in Italia, essendo
stato approvato il nuovo regolamento per l'Accademia (decreto del 1º sett.
1803), si dedicava con rinnovato vigore all'istituto, al quale fornì il corredo
didattico: calchi da statue antiche, da cippi, vasi, motivi architettonici, e
da opere dell'ammiratissimo Canova, manichini, incisioni, libri (risale al 20
ag. 1802 la sua proposta di istituire - come poi fu fatto - la Biblioteca
dell'Accademia, tuttora esistente). Preoccupato anche di fornire una razionale
sistemazione ai locali della scuola, non tralasciò nemmeno di occuparsi della
specola astronomica e persino delle abitazioni per gli astronomi e per i
disegnatori della carta geografica della Repubblica. Per questo nel 1804, con
una commendatizia per il card. Fesch, si recò a Roma.
Qui, sotto l'influsso del genio raffaellesco,
compì il cartone del Parnaso (probabilmente già iniziato nel suo primo soggiorno
romano) che fu poi entusiasticamente apprezzato dal Canova (L. Missirini, Vita di A. Canova,
Milano 1825, p. 241). Il cartone fu acquistato nel 1517 dal duca di Weimar,
Carlo Augusto, e collocato nell'Accademia di quella città. L'opera colpì
l'immaginazione di Goethe che, ottenute dal Cattaneo notizie sull'autore,
stupito della sua dottrina, specie nei riguardi di Leonardo, volle scriverne
per i suoi connazionali (W. Goethe, J. Bossi über Leonard da Vincis AbendmahI zu
Mailand, in Kunst und Altertum, I [1817], 3, pp. 113-158; cfr. anche L.
Mazzucchetti, Goethe
e il cenacolo di Leonardo, Milano 1939). A Roma il B. frequentò
assiduamente anche la Biblioteca Vaticana, interessandosi ad antichi codici
miniati altomedievali per trarne modelli di panneggio e di vestiari per
l'iconografia dei suoi quadri di soggetto medievale. Tornato a Milano, ebbe dal
Melzi la commissione di un quadro, la Pace di Costanza, soggetto celebrativo
delle glorie di Milano - cui non fu estranea la polemica patriottica nei
riguardi dei Francesi allora occupanti - di cui rimane il disegno preparatorio
(Milano, Gall. d'Arte Moderna). Ma già dal marzo 1803, attratto dai miti e
dalla poesia ellenici, attendeva a un Edipo a Colono già cieco quando Creonte gli conduce
le figlie e il vecchio tremolante le cerca (cartone all'Ambrosiana
di Milano) e a un Coro
dei Seniori, sempre ispirato a Sofocle, perduto.
Successivamente concepiva l'idea
di una apoteosi pittorica dei maggiori poeti: Dante (di cui fu studioso
assiduo), Petrarca, Boccaccio e Ariosto, medievalmente raffigurati sul vertice
di un monte con gli allievi e gli ammiratori alle pendici. Ambiziosa opera di
artista-letterato, sollecito dei rapporti tra pittura e poesia, di cui non ci
rimangono che il
Monte di Petrarca (all'Ambrosiana) e i molti disegni preparatori
(al Castello Sforzesco di Milano). L'amore per il sommo poeta italiano lo
indusse a raccogliere codici della Divina Commedia. Il tipografo Luigi
Mussi gli dedicò per questo motivo la sua edizione della Commedia uscita
a Milano nel 1809, prodigandosi in elogi al pittore studioso. Pittura e poesia
animate da un costante afflato etico e intese come fattrici e rinnovatrici del
costume civile, e perciò considerate come forza degli Stati: queste le idee che
accompagnano il B. in tutta la sua operosità. I concetti sono svolti
chiaramente il 24 giugno 1805 nel suo Discorso sulla utilità politica delle arti del
disegno, tenuto in una solenne tornata dell'Istituto da lui
riformato. Ivi è affrontato il problema della Pinacoteca di Brera (già
istituita, ma solo sulla carta) che il B. veniva ad arricchire del materiale
artistico sottratto alle chiese e ai conventi a seguito delle soppressioni
napoleoniche, salvaguardandolo da esodi al di là delle Alpi (sin dai Comizi di
Lione aveva avuto parole di insofferenza, se non di sdegno, per le depredazioni
francesi). È di questo periodo il suo travaglio presso le autorità e il viceré
al fine di assicurare alla Pinacoteca lo Sposalizio di Raffaello. Non è da
stupire che all'epoca delle trattative con i proprietari del quadro (eredi del
generale Sannazari), attorno al giugno 1804, si sia affacciata alla mente del
B. l'idea di una legge che vietasse l'esportazione delle opere d'arte, in
conformità di quanto vedeva praticato a Roma. Alla sua ferma volontà di tutela
del materiale artistico italiano va ricondotta la protesta (6 sett. 1805) al
direttore generale della Pubblica Istruzione per la demolizione operata in
Verona dell'arco romano di Castelvecchio (volgarmente chiamato arco di
Vitruvio).
Artista, oratore affascinante,
collezionista, bibliofilo, uomo di mondo, il B. aveva tutte le qualità per
dirigere realmente l'Accademia che tanto aveva contribuito a rinnovare: e di
fatto era arbitro dell'Istituto. Ciò finì per dispiacere al governo, dove
dominava il ministro degli Interni marchese di Breme e, per la parte relativa
agli istituti, il conte G. Paradisi. Con malcelata intenzione di mortificare il
pittore, fu ripristinata la carica di presidente per le tre accademie del Regno
d'Italia (Milano, Venezia, Bologna), e a Milano fu nominato il conte Luigi
Castiglioni. Il B., con molta dignità, rispose con le dimissioni (31 genn.
1807). Nello stesso tempo il viceré Eugenio, quasi a compensarlo dell'affronto
subito, gli commise la copia della Cena di Leonardo del refettorio delle
Grazie (27 apr. 1807).
Sarebbe dovuta essere una
ricostruzione del celebre e malconcio capolavoro: un compito disperato e
assurdo, che gli richiese due anni di lavoro e di ricerche, e finì col
rovinargli la salute. Fatta la ricognizione delle imitazioni del dipinto
vinciano nei secoli, il B. le studiò e descrisse: il risultato degli studi fu
dapprima un cartone (ricompensato dal viceré, il 9 genn. 1808, con un premio di
lire 28.000), successivamente una tela a olio. Quest'ultima fu esposta al
Broletto nel novembre 1809 (passata al Castello Sforzesco, fu quivi distrutta
nel 1943 per eventi bellici). Sul cartone venne fatto eseguire, per
suggerimento dello stesso B., un mosaico dal romano G. Raffaelli (Vienna,
Minoritenkirche); il B., che aveva in animo la fondazione di una scuola del
mosaico da annettere a Brera, pensava che il lavoro avrebbe avviato
concretamente l'idea e sarebbe stato il primo di una serie nella quale
avrebbero dovuto prendere parte rilevante le storie delle gesta di Napoleone
dell'Appiani. Ma il frutto migliore delle ricerche fu il grosso in-folio Del Cenacolo di Leonardo
da Vinci, uscito nel 1810: esemplare per l'analisi delle
sottigliezze compositive e psicologiche di Leonardo, ivi compreso il Discorso sulla simmetria
dei corpi umani (libro IV, cap. IV) che il pittore diffuse anche
separatamente, come estratto, dedicandolo al Canova.
Una tela di grandi dimensioni con
La Notte e
l'Aurora fu da lui eseguita nel 1804, sotto l'influsso del Canova e
di Raffaello, per il soffitto della villa Amalia di Rocco Marliani a Erba (oggi
dell'Amministr. prov. di Como). In questo stesso periodo finiva per la villa
Sommariva in Lodi il suggestivo quadretto I funerali di Temistocle (Milano,
Galleria d'Arte moderna).
Nel giugno 1810 era a Roma, poi a
Napoli, con lo scopo di copiare un apografo vinciano del Trattato della pittura,
conservato alla Biblioteca reale (ms. XII. D. 79), ma altresì di raccogliere
monete, oggetti d'arte antica e libri (già nel 1808 si era fatto fare da L.
Marini, bibliotecario della Vaticana, una copia del cod. Urb. 270 del Trattato: cfr.
G. Pedretti, I
manoscritti Bossi all'Ambrosiana, in Raccolta Vinciana, XIX [1962],
pp. 294 s.). A Napoli frequentò amici vecchi e nuovi: V. Cuoco, M. Delfico, L.
Serra di Cassano, G. Capecelatro arcivescovo di Taranto, il ministro Tassoni,
il principe di Montemiletto. Rientrato a Milano, per incarico ufficiale del
viceré (22 dic. 1810) s'occupò di una scuola di pittura aperta nella casa da
lui recentemente acquistata in via S. Maria Valle. Nella casa trovarono sede le
sue ricche collezioni di disegni, quadri, sculture, libri e stampe, della cui
consistenza siamo informati dai cataloghi delle aste che si fecero, dopo la
morte del B., nel 1818: vi si rivelano interessi quasi insospettabili in un
neoclassico, come quelli per l'arte lombarda nei secoli XV e XVI, che hanno un
innegabile significato precursore nella storia della critica d'arte e della
cultura.
Le ricerche sulla scuola
lombarda, cui si accenna nelle Memorie, avrebbero dovuto costituire la continuazione delle
notizie raccolte da V. de Pagave (morto nel 1802): materiale dal B. acquistato
e dopo la sua morte, attraverso vari passaggi, giunto ad Alessandro Melzi che
lo depose nella propria biblioteca, la Melziana, deplorabilmente dispersa in
tempi recenti. I disegni acquistati nel 1818 dall'Austria, tramite l'abate
Celotti, furono destinati alla Galleria dell'Accademia di Venezia. Molti dei
volumi furono acquistati da L. Cicognara e, con la devoluzione delle raccolte
di costui alla Vaticana, si trovano oggi in questa biblioteca.
Con l'inizio del 1811 il B.
propose al governo la pubblicazione integrale e critica del Trattato della pittura di
Leonardo, che riteneva giustamente due terzi più esteso di quello conosciuto,
dicendosi disposto a cooperare nelle spese; né trascurò di raccogliere
documenti sull'antica scuola lombarda, per il cui fine richiese l'accesso
all'Archivio del duomo di Milano.
Nel settembre 1812, il B. si recò
a Verona e a Vicenza (esperienza da cui uscì il diario autografo, di recente
pubblicato [Tosi-Brunetto, 1969] e successivamente andò a Padova, per vedere,
agli Eremitani, l'ammiratissimo Mantegna e il Guariento; infine visitò Venezia,
spintovi dalla sua antica aspirazione a colmare, con la visione dei grandi
coloristi veneziani, la così spesso rimproveratagli sordità al colore.
Sulla allegoria
pittorico-astrologica del Guariento agli Eremitani di Padova scriverà al cav.
Lazzara. Le annotazioni del diario relative a Verona e a Vicenza mostrano un B.
ligio alla teorica neoclassica, specialmente nell'architettura, non senza
asprezze dogmatiche nei confronti di grandissimi come il Sanmicheli e il
Palladio, ma altresì con inattese aperture verso la pittura dei primitivi e
verso i pittori del primo '400.
Frattanto, mancandogli occasioni
per opere di grande respiro, andava producendo disegni, abbozzi, schizzi,
ritratti, scenette mitologiche ispirati alla poesia e al dramma antico e alla Divina Commedia,
di cui rimangono esempi presso eredi o amici o in istituti (Eredi racc. Bossi,
oggi Treccani; racc. già Nicodemi a Milano; racc. Luigi Milani, M. Venzaghi, B.
Grampa a Busto Arsizio; racc. G. G. Gallarati Scotti a Oreno [Milano]. E tra
gli istituti: a Milano, Accademia di Brera [Biblioteca], Pinacoteca di Brera,
Castello Sforzesco, Galleria d'Arte moderna, Biblioteca Ambrosiana, Museo di
Milano; a Venezia, Museo Correr; a Firenze, Collez. degli Autoritratti alla
Galleria degli Uffizi; a Parma, Biblioteca Palatina e in altre città: una
ricognizione esauriente e precisa delle opere del B., anche sulla base dei
cataloghi di vendita del 1818, non è ancora stata fatta). Lo attraeva
moltissimo il ritratto, sia degli altri sia il proprio, oltreché come motivo
figurativo, come saggio di introspezione psicologica e "scavo" del
personaggio.
Tra i moltissimi che eseguì
ricordiamo il possente Autoritratto della Galleria d'Arte moderna di Milano, uno
dei più giovanili, che lo dimostra bell'uomo con labbra sensuali, sguardo
penetrante e fronte adombrata da riccioli spioventi alla Brutus; e
l'altro Autoritratto
della Pinacoteca di Brera, alla soglia della morte, dove solo gli
occhi fiammeggiano nel disfacimento totale. Tra i ritratti che sono a noi
pervenuti, ricordiamo, per le sue attinenze biografiche, quello bellissimo di
una ignota Dama
in bianco (forse la Cigalini da lui amata) e il ritratto di Gaspare Landi,
pittore (Milano, Gall. d'Arte mod.) e di Felice Bellotti, suo grande amico,
poeta e pittore (Milano, Ambrosiana); e ancora i ritratti di Cesare Beccaria,
e di Carlo Porta
(Museo di Milano). Altri sono in private raccolte di Milano e della
Lombardia; molti sono documentati da prove, abbozzi e disegni, altri infine da
incisioni, come quelle che appaiono nelle Vite e ritratti di Italiani illustri,
Padova 1812-1820.
Messosi in disparte dalla vita
politica, il B. assisté con animo distaccato al cambiamento di regime (22 apr.
1814), commentando non benevolmente per l'ucciso l'assassinio del ministro
Prina, accusato di poco coraggio. Con la venuta degli Austriaci si immerse
nell'attività artistica: è di questo tempo, fra l'altro, il ritratto di Maria Londonio Frapolli
con le figlie Giulia e Lucia, la famosa Bia o Madama Bibin del
Porta, di accesi sentimenti classicistici (coll. Gallarati-Scotti, Oreno,
pubbl. da Sioli-Legnani, Mondo portiano); di Giuseppe Taverna (coll. privata); il
Taverna figura inoltre, insieme con il B. medesimo, Carlo Porta e un altro,
forse Gaetano Cattaneo, nel notissimo quadriritratto detto la Camaretta portiana,
(racc. eredi Treccani degli Alfieri); di Francesca Campori Ciani con le figlie (coll.
priv.); di Carlotta
Augusta di Brunswick, principessa di Galles (coll. privata), delle
cui stravaganze il B. si lagna nelle Memorie; infine il ritratto delle Figlie di Lord Lucan,
gentiluomo inglese dilettante e collezionista.
Dal 1º genn. 1815 il B. fu ospite
di Francesco Melzi nella villa di Bellagio (attualmente villa Gallarati-Scotti)
con la speranza di recuperare le forze, mortificate dai troppo frequenti
salassi praticatigli secondo la terapia del tempo, assai nocivi in un organismo
minato dalla etisia. A Bellagio il B. attese a decorare alcune sale della villa
con la collaborazione di G. Lavelli e di C. Prayer (Fatti della vita di Francesco Melzi discepolo
di Leonardo, antenato del duca); eseguì il Parnaso (tema amato e spesso replicato)
sulla volta del salone d'onore, affresco a chiaroscuro; un nobilissimo doppio
disegno (destinato a medaglia) di Napoleone e Francesco Melzi di profilo
(ivi); altrove, sempre nella villa, fantasie di soggetto anacreonteo, e opere
di argomento religioso - tra cui una Pietà, di grande effetto monumentale ed
elegiaco insieme, quasi un presagio della fine -,e una Madonna e Bambino per
la cappella della villa, cui nuoce la eccessiva obbedienza ai canoni
raffaellesco-leonardeschi (v. L. Grassi, Villa Melzi, in Arte figurativa,
VII [1959], 5, pp. 30-37). Da Bellagio, nel risorgere delle illusioni, preso da
nuovo fervore poetico, indirizzava al Bellotti e a G. Banfi odi di accento
pariniano, permeate da malinconia di sapore "romantico". Ivi,
contemporaneamente, il B. ribadiva la fede nella "greca scuola con sue
forme sublimi" cioè nel classicismo: ma si trattava ormai di un
classicismo eroso in radice dall'avanzante e vittorioso romanticismo.
Di ritorno a Milano, dopo un
soggiorno estivo alla Perlasca (villa Taverna, sul lago di Como), spirava il 9
dic. 1815.
Gli amici gli tributarono
onoranze solenni: Gaetano Cattaneo recitò l'orazione funebre in S. Giorgio in
Palazzo; nel 1817 l'Accademia di Belle Arti di Brera gli innalzò la bellissima
erma scolpita da C. Pacetti, collocata nella galleria del primo piano
dell'edificio; e un anno dopo, nel 1818, gli amici (Berchet, Beccaria,
Cattaneo, Ciani, ecc.) inaugurarono nella sala Custodi dell'Ambrosiana il cippo
marmoreo (oggi sul primo pianerottolo della scala del Museo), con il busto
opera di Canova (1815-17, gessi nella Gipsoteca di Possagno e nella Pinac.
Tosio Martinengo di Brescia) e i bassorilievi di P. Marchesi e G. Giorgioli:
segno eloquente di affetto e primo giudizio della posterità, dalla quale poi
ingiustamente, per lungo arco di tempo, fu ignorato.
(Estratto da: Dizionario
Biografico degli Italiani - Volume 13 -1971).
APOTEOSI DI GIAMBATTISTA BODONI
Nel 1800 Giuseppe Bossi pittore
e letterato, tra l' altro amico intimo di Carlo Porta, disegnò una "Apoteosi di Giambattista Bodoni"
nella quale si vede, in stile neoclassico, l' incoronazione del sommo tipografo
attorniato dai grandi poeti, antichi e moderni, che lui stesso aveva stampato.
Giuseppe Bossi, apoteosi di Giambattista Bodoni.
|